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sabato 30 giugno 2007

580-LA UE PRONTA A PROCESSARE GLI SCONTI ICI ALLA CHIESA

 DI C. MALTESE

da: la Repubblica di lunedì 25 giugno 2007

C´è chi in Italia è abituato a ottenere privilegi da qualsiasi governo e autorizzato a non pagare il fisco, ma sul quale nessuno osa moraleggiare. Pena l´accusa di anticlericalismo.

L´anomalo rapporto fra Stato italiano e clero è invece finito da tempo sul tavolo dell´Unione europea, che si prepara a mettere sotto processo il nostro Paese per i vantaggi fiscali concessi alla Chiesa cattolica, contrari alle norme comunitarie sulla concorrenza. Oltre che alla Costituzione, meno di moda. Al centro del caso è l´esenzione del pagamento dell´Ici per le attività commerciali della Chiesa. La storia è vecchia ed è tipicamente italiana.

Varato nel ´92, bocciato da una sentenza della Consulta nel 2004, resuscitato da un miracolo di Berlusconi con decreto del 2005, quindi decaduto e ancora recuperato dalla Finanziaria 2006 come omaggio elettorale, il regalo dell´Ici alla Chiesa è stato in teoria abolito dai decreti Bersani dell´anno scorso. Molto in teoria, però. Di fatto gli enti ecclesiastici (e le onlus) continuano a non pagare l´Ici sugli immobili commerciali, grazie a un gesuitico cavillo introdotto nel decreto governativo e votato da una larghissima maggioranza, contro la resistenza laica di un drappello di mazziniani radicali guidati dall´onorevole Maurizio Turco. I resistenti laici avevano proposto di limitare l´esenzione dell´Ici ai soli luoghi senza fini commerciali come chiese, santuari, sedi di diocesi e parrocchie, biblioteche e centri di accoglienza. Il cavillo bipartisan ha invece esteso il privilegio a tutte le attività "non esclusivamente commerciali". Basta insomma trovare una cappella votiva nei paraggi di un cinema, un centro vacanze, un negozio, un ristorante, un albergo, e l´Ici non si paga più. In questo modo la Chiesa cattolica versa soltanto il 5 o 10 per cento del dovuto allo Stato italiano con una perdita per l´erario di almeno 400 milioni di euro ogni anno, senza contare gli arretrati.

Il trucco o se vogliamo la furbata degli italiani non è piaciuta a Bruxelles, da dove è partita una nuova richiesta di spiegazioni al governo. Il ministero dell´Economia ha rassicurato l´Ue circa l´inequivocabilità delle norme approvate, ma subito dopo ha varato una commissione interna di studio per chiarirsi le idee. L´affannosa contraddizione è stata segnalata all´autorità europea dall´avvocato Alessandro Nucara, esperto in diritto comunitario, e dal commercialista Carlo Pontesilli, due professionisti di simpatie radicali che affiancano e assistono il drappello dell´orgoglio laico. A questo punto la commissione per la concorrenza europea avrebbe deciso di riesumare la pratica d´infrazione già aperta ai tempi del governo Berlusconi e poi archiviata dopo l´approvazione dei decreti Bersani. In più, la commissione ha chiesto al governo Prodi di fornire un quadro generale dei favori fiscali che l´Italia concede alla Chiesa cattolica, oltre all´esenzione Ici.

Che cosa potrà succedere ora? Un´infrazione in più o in meno probabilmente non cambia molto. L´Italia dei monopoli, dei privilegi e delle caste è già buona ultima in Europa per l´applicazione delle norme sulla concorrenza e naviga in un gruppo di nazioni africane per quanto riguarda la trasparenza fiscale. Quale che sia la decisione dell´Ue, i governi italiani, di destra e di sinistra, troveranno sempre modi di garantire un paradiso fiscale assai poco mistico alla Chiesa cattolica all´interno dei nostri confini. Magari tagliando ancora sulla ricerca e sulla scuola pubblica.

E´ triste constatare però che senza le pressioni di Bruxelles e la lotta di una minoranza laicista indigena, l´opinione pubblica non avrebbe neppure saputo che gli enti religiosi continuano a non pagare l´Ici almeno al 90 per cento. Nonostante l´Europa, la Costituzione, le mille promesse di un ceto politico senza neppure il coraggio di difendere le proprie scelte. Nonostante le solenni dichiarazioni di Benedetto XVI e dei vescovi all´epoca dei decreti Bersani: «Non ci interessano i privilegi fiscali». Nonostante infine siano passati duecento anni da Thomas Jefferson («nessuno può essere costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso») e duemila dalla definitiva sentenza del Vangelo: «Date a Cesare quel che è di Cesare».

 
580-LA UE PRONTA A PROCESSARE GLI SCONTI ICI ALLA CHIESA

 DI C. MALTESE

da: la Repubblica di lunedì 25 giugno 2007

C´è chi in Italia è abituato a ottenere privilegi da qualsiasi governo e autorizzato a non pagare il fisco, ma sul quale nessuno osa moraleggiare. Pena l´accusa di anticlericalismo.

L´anomalo rapporto fra Stato italiano e clero è invece finito da tempo sul tavolo dell´Unione europea, che si prepara a mettere sotto processo il nostro Paese per i vantaggi fiscali concessi alla Chiesa cattolica, contrari alle norme comunitarie sulla concorrenza. Oltre che alla Costituzione, meno di moda. Al centro del caso è l´esenzione del pagamento dell´Ici per le attività commerciali della Chiesa. La storia è vecchia ed è tipicamente italiana.

Varato nel ´92, bocciato da una sentenza della Consulta nel 2004, resuscitato da un miracolo di Berlusconi con decreto del 2005, quindi decaduto e ancora recuperato dalla Finanziaria 2006 come omaggio elettorale, il regalo dell´Ici alla Chiesa è stato in teoria abolito dai decreti Bersani dell´anno scorso. Molto in teoria, però. Di fatto gli enti ecclesiastici (e le onlus) continuano a non pagare l´Ici sugli immobili commerciali, grazie a un gesuitico cavillo introdotto nel decreto governativo e votato da una larghissima maggioranza, contro la resistenza laica di un drappello di mazziniani radicali guidati dall´onorevole Maurizio Turco. I resistenti laici avevano proposto di limitare l´esenzione dell´Ici ai soli luoghi senza fini commerciali come chiese, santuari, sedi di diocesi e parrocchie, biblioteche e centri di accoglienza. Il cavillo bipartisan ha invece esteso il privilegio a tutte le attività "non esclusivamente commerciali". Basta insomma trovare una cappella votiva nei paraggi di un cinema, un centro vacanze, un negozio, un ristorante, un albergo, e l´Ici non si paga più. In questo modo la Chiesa cattolica versa soltanto il 5 o 10 per cento del dovuto allo Stato italiano con una perdita per l´erario di almeno 400 milioni di euro ogni anno, senza contare gli arretrati.

Il trucco o se vogliamo la furbata degli italiani non è piaciuta a Bruxelles, da dove è partita una nuova richiesta di spiegazioni al governo. Il ministero dell´Economia ha rassicurato l´Ue circa l´inequivocabilità delle norme approvate, ma subito dopo ha varato una commissione interna di studio per chiarirsi le idee. L´affannosa contraddizione è stata segnalata all´autorità europea dall´avvocato Alessandro Nucara, esperto in diritto comunitario, e dal commercialista Carlo Pontesilli, due professionisti di simpatie radicali che affiancano e assistono il drappello dell´orgoglio laico. A questo punto la commissione per la concorrenza europea avrebbe deciso di riesumare la pratica d´infrazione già aperta ai tempi del governo Berlusconi e poi archiviata dopo l´approvazione dei decreti Bersani. In più, la commissione ha chiesto al governo Prodi di fornire un quadro generale dei favori fiscali che l´Italia concede alla Chiesa cattolica, oltre all´esenzione Ici.

Che cosa potrà succedere ora? Un´infrazione in più o in meno probabilmente non cambia molto. L´Italia dei monopoli, dei privilegi e delle caste è già buona ultima in Europa per l´applicazione delle norme sulla concorrenza e naviga in un gruppo di nazioni africane per quanto riguarda la trasparenza fiscale. Quale che sia la decisione dell´Ue, i governi italiani, di destra e di sinistra, troveranno sempre modi di garantire un paradiso fiscale assai poco mistico alla Chiesa cattolica all´interno dei nostri confini. Magari tagliando ancora sulla ricerca e sulla scuola pubblica.

E´ triste constatare però che senza le pressioni di Bruxelles e la lotta di una minoranza laicista indigena, l´opinione pubblica non avrebbe neppure saputo che gli enti religiosi continuano a non pagare l´Ici almeno al 90 per cento. Nonostante l´Europa, la Costituzione, le mille promesse di un ceto politico senza neppure il coraggio di difendere le proprie scelte. Nonostante le solenni dichiarazioni di Benedetto XVI e dei vescovi all´epoca dei decreti Bersani: «Non ci interessano i privilegi fiscali». Nonostante infine siano passati duecento anni da Thomas Jefferson («nessuno può essere costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso») e duemila dalla definitiva sentenza del Vangelo: «Date a Cesare quel che è di Cesare».

 

venerdì 29 giugno 2007

Comunità dell’isolotto

domenica 24 giugno 2007

riflessioni di Carlo, Claudia, Luisella, Maurizio

 

Dio e denaro

 

 

Sono queste le cose che tu devi insegnare e raccomandare.

Se qualcuno insegna diversamente, se non segue le sane parole di Gesù Cristo nostro Signore e l'insegnamento della nostra religione, è un superbo e un ignorante, un malato che va in cerca di discussioni e vuol litigare sulle parole.

Da queste cose nascono invidie, contrasti maldicenze, sospetti cattiverie e discussioni senza fine. Chi fa così è gente squilibrata lontana dalla verità. Essi pensano che la religione sia un mezzo per fare soldi.

Certo la religione è una grande ricchezza, per chi si accontenta di quel che ha. Perché non abbiamo portato nulla a questo mondo e non potremo portar via nulla.

Dunque quando abbiamo da mangiare e da vestirci, contentiamoci. Quelli invece che vogliono diventare ricchi, cadono nelle tentazioni, sono presi nella trappola di molti desideri stupidi e disastrosi, che fanno precipitare gli uomini nella rovina e perdizione. Infatti l'amore dei soldi è la radice di tutti i mali.

Alcuni hanno avuto un tale desiderio di possedere, che sono andati lontani dalla fede e si sono tormentati da se stessi con molti dolori.” (dalla I lettera di San Paolo a Timoteo 6, 3-10)

 

 Il dio denaro permette l'impossibile

Il dio denaro può anche far comprar l'amore

Il dio denaro consente la mia istruzione

Il dio denaro distrugge tutti gli altri dei

Il dio denaro è un dio speciale

Fatto di carta e presunto potere

Dio, non ho più contatto col mio Dio

Sono cieco e l'ateo sono io

A pretenderti, a desiderarti, a spenderti

e ora so che il dio denaro ha vinto Dio

Il dio denaro(questo ragazzo proprio non ha rispetto)si può acquistare i sudditi

Il dio denaro(porco) non bada a leggi e a scrupoli

Col dio denaro(è una bestemmia) è merce musica e poesia

Il dio denaro si crede l'arte figlia sua

Il dio denaro è un dio speciale

Fatto di carta e presunto potere

Dio, non ho più contatto col mio Dio

Sono cieco e l'ateo sono io

A pretenderti, a desiderarti, a spenderti

E ora so che il dio denaro ha vinto Dio

Dio, non ho più contatto col mio Dio

Sono cieco e l'ateo sono io

A pretenderti, a desiderarti, a spenderti

E ora so che il dio denaro sono .... IO!

Il dio denaro ha vinto Dio

Il dio denaro ha vinto Dio                     [Bluvertigo, il Dio Denaro, 1995]

 

  

Principi del Sistema Bancario Islamico

[Questo articolo è stato pubblicato nella decima edizione del periodico Nida’ul Islam, novembre-dicembre 1995]

 

Per milioni di musulmani le banche sono istituzioni da evitare. L’Islam è una religione che tiene i credenti lontani dallo sportello del cassiere. Il credo islamico li allontana da affari che implicano usura o interessi (Riba). Tuttavia i musulmani hanno bisogno dei servizi bancari come chiunque altro e per diversi scopi: per finanziare nuove imprese commerciali, per comprare una casa, per comprare una macchina, per facilitare gli investimenti di capitali, per intraprendere attività di scambio e per mettere al sicuro i propri risparmi. Quindi i musulmani non sono contrari al legittimo profitto poiché l’Islam incoraggia le persone ad utilizzare il denaro in imprese legali in base ai principi islamici, e non certo a lasciare i loro fondi inattivi.

Tuttavia in questo mondo che si muove velocemente, più di 1400 anni dopo il Profeta (saw), possono i musulmani trovare lo spazio per i principi della loro religione? La risposta scaturisce dal fatto che una rete globale di banche islamiche, centri di investimento e altre istituzioni finanziarie ha cominciato a prendere forma in base ai principi della finanza islamica fissati nel Corano e nelle tradizioni del Profeta quattordici secoli fa. Il sistema bancario islamico, basato sul divieto coranico di addebitare gli interessi, è nato da un concetto teoretico evolvendosi fino ad abbracciare più di 100 banche operanti in 40 paesi con depositi multimilionari in tutto il mondo. Il sistema bancario islamico è ampiamente considerato come il fattore in più rapida espansione nel mercato dei servizi finanziari medio orientali. Esploso nel panorama finanziario appena 30 anni fa, in accordo con la Shari'ah gestisce ora fondi finanziari per un valore approssimativo pari a 70 bilioni di dollari americani. Le ricchezze detenute dalle banche islamiche sottoforma di deposito nel 1985 ammontavano a circa 5 bilioni di dollari americani ma sono aumentate fino a 60 bilioni di dollari nel 1994.

La caratteristica più nota del sistema bancario islamico è il divieto di addebitare interessi. Il Corano vieta l’attribuzione di interessi (Riba) sul denaro prestato. È importante comprendere alcuni principi dell’Islam sui cui si fonda la finanza islamica. La Shari'ah si basa sui principi coranici così come sono stati fissati nel Sacro Corano e sulle parole e le gestadel profeta Muhammad (saw). La Shari'ah proibisce gli interessi (Riba) e gli economisti islamici sono ora concordi sul fatto che il termine Riba non si riferisce solo all’usura ma anche ai tassi di interesse. Il Corano è chiaro riguardo al divieto di Riba, che viene a volte definita come interesse eccessivo. “Oh Voi dov’è la vostra fede! Abbiate timore di Allah e se siete davvero credenti, riponete le vostre rivendicazioni da usurai”. Gli studiosi musulmani hanno accettato il termine Riba per riferirsi a qualsiasi corresponsione di interessi, fissa o garantita, sui prestiti di denaro contante o sui depositi. Numerosi passaggi coranici ammoniscono espressamente il fedele a guardarsi dagli interessi.

Le regole della finanza islamica sono piuttosto semplici e possono riassumersi nel seguente modo :

 

a)      Qualsiasi pagamento predeterminato oltre e in aggiunta all’effettivo importo di denaro è vietato.

 L’Islam permette solo un tipo di prestito chiamato qard-el-hassan (letteralmente, buon prestito) dove il prestatore non addebita alcun interesse o importo addizionale alla cifra prestata. Gli antichi giuristi musulmani hanno fissato questo principio in modo così ferreo che, secondo un commentare “questo divieto si applica a qualsiasi vantaggio o beneficio che il prestatore potrebbe ricavare dal qard(prestito) così come cavalcare il mulo del debitore, mangiare alla sua tavola, o anche approfittarsi dell’ombra del suo muro di cinta”. Il principio sotteso a questa citazione enfatizza che benefici associati o derivati (N.d.A. dal prestito) sono proibiti.

 

b)     Il prestatore deve dividere i profitti o le perdite derivanti dall’impresa commerciale per cui fu prestato denaro.

      L’Islam incoraggia i musulmani a investire il loro denaro e a diventare soci tra loro dividendo i rischi e i profitti dell’attività commerciale piuttosto che diventare creditori. Come stabilito nella Shari'ah, ovvero la legge islamica, la finanza islamica si fonda sulla credenza che colui che fornisce il capitale e colui che lo utilizza dovrebbero spartire in ugual misura i rischi delle imprese commerciali, sia che si tratti di fabbriche, aziende agricole, compagnie di servizi o semplici attività commerciali. Tradotto in termini bancari, il depositante, la banca e il debitore dovrebbero tutti dividere i rischi e i guadagni derivanti dal finanziamento di imprese commerciali. Questo è differente dal sistema bancario commerciale basato sugli interessi, dove tutta la pressione è sul debitore: il debitore deve restituire il suo prestito, insieme all’interesse concordato, indipendentemente dal successo o dal fallimento della sua impresa commerciale. Ciò che emerge da quanto detto è che l’Islam incoraggia gli investimenti affinché la comunità possa trarne beneficio. Tuttavia, (l’Islam, N.d.A.) non desidera lasciare scappatoie per chi non vuole investire e correre rischi, ma preferisce piuttosto ammassare denaro o depositarlo in una banca in cambio di un aumento di questi fondi senza alcun rischio (tranne quello che la banca possa diventare insolvente). Di conseguenza, in base all’Islam, le persone devono investire correndo dei rischi oppure devono subire le perdite economiche determinate dalla svalutazione del denaro per l’inflazione derivante dal mantenere i loro fondi inattivi. L’Islam incoraggia il principio “maggiori rischi, maggiori guadagni” e lo promuove sbarrando tutte le altre strade disponili agli investitori. Lo scopo è fornire uno stimolo all’economia e spingere gli imprenditori a massimizzare i loro sforzi tramite investimenti ad alto rischio.

 

c)      Guadagnare denaro dal denaro non è islamicamente accettabile.

 Il denaro è solo un mezzo di scambio, un modo per definire il valore di una cosa; non ha alcun valore intrinseco e quindi non dovrebbe poter generare altro denaro, tramite il pagamento di interessi fissi, semplicemente venendo depositato in una banca o prestato a qualcun altro. Lo sforzo umano, lo spirito di iniziativa e il rischio insito in un’attività produttiva sono più importanti del denaro usato per finanziarli. I giuristi musulmani considerano il denaro come capitale potenziale piuttosto che come capitale in senso stretto, nel senso che il denaro diventa capitale solo quando viene investito in un’attività commerciale. Di conseguenza, il denaro anticipato per un’attività commerciale sottoforma di prestito è considerato come un debito dell’impresa commerciale e non come un capitale e, in quanto tale, non dà diritto ad alcun profitto (i.e. interesse). I musulmani sono incoraggiati ad acquistare e sono scoraggiati dal mantenere il denaro inattivo, ragion per cui, ad esempio, ammassare denaro viene visto come inaccettabile. Nell’Islam il denaro rappresenta il potere d’acquisto che viene considerato come l’unico uso legittimo del denaro. Questo potere d’acquisto (denaro) non può venire usato per creare maggiore potere d’acquisto (denaro) senza passare attraverso la tappa intermedia dell’acquisto di beni e servizi.

  

d) Gharar (Incertezza, Rischio o Speculazione) viene anche proibita.

Sotto questo divieto qualsiasi transazione effettuata dovrebbe essere esente da incertezza, rischio e speculazione. Le parti contraenti dovrebbero essere perfettamente a conoscenza dei contro valori che verranno scambiati come risultato delle loro transazioni. Inoltre, le parti contraenti non possono predeterminare un profitto garantito. Questo si basa sul principio dei “guadagni incerti” che, interpretati in senso stretto, non permettono nemmeno un’iniziativa da parte del cliente per ripagare la cifra presa in prestito più un ammontare supplementare dovuto all’inflazione. La ratio dietro al divieto è il desiderio di proteggere il debole dallo sfruttamento. Quindi, le azioni e i futures (N.d.A. promesse di acquisto/vendita future) sono considerate non-islamiche così come le transazioni finanziarie in valuta estera perché i tassi di scambio sono determinati dai differenziali dei tassi di interesse. Molti studiosi islamici disapprovano l’indicizzazione del livello di indebitamento tramite l’inflazione e giustificano questo divieto alla luce del qard-el-hassan (N.d.A. buon prestito). Secondo questi studiosi, il creditore offre il prestito per ottenere la benedizione di Allah e si aspetta di ottenere una ricompensa solo da Allah. Molte transazioni vengono considerate come eccezioni al principio del gharar: vendite con pagamento anticipato (bai' bithaman ajil); contratto di produzione (Istisna); e contratto di assunzione (Ijara). In ogni caso esistono requisiti legali per far sì che questi contratti vengano stipulati e conclusi in modo da minimizzare qualsiasi rischio.

 

e)      Gli investimenti dovrebbero favorire esclusivamente pratiche o prodotti che non sono vietati o anche solo scoraggiati dall’Islam.

 Il commercio di alcohol, per esempio, non verrebbe finanziato da una banca islamica; un prestito immobiliare non potrebbe venir concesso per la costruzione di un casinò; e la banca non potrebbe prestare denaro ad altre banche dietro la corresponsione di interessi.

 

  

Finanza Islamica [ Magdi Allam, 5 maggio 2005 : "I paradossi della finanza islamica"]  

La francese Bnp Paribas ha da poco messo sul mercato un fondo che rispetta i principi della Sharia e quindi non investe in società che sono in qualche modo legate al business dell’alcol. O alle armi. Oppure al gioco d’azzardo. Non investono nemmeno in società che si occupano di ingegneria genetica. Niente maiali, società fortemente indebitate o tabacco. Circa 1 miliardo e mezzo i musulmani nel mondo: un bacino di potenziali investitori che fanno gola a molti.

E inoltre più gli islamici si avvicinano all’occidente e più cresce il numero di imprenditori e commercianti. Perché non predisporre degli strumenti finanziari ad hoc? Lo hanno già fatto Citigroup, Hsbc e Ubs: istituti di primo piano che hanno da tempo puntato sulla finanza islamica. La maggiore controindicazione è costituita dal tempo. Che per i musulmani non può essere considerato un parametro di denaro. E quindi niente tassi di interesse. Quelli di Bnp Paribas hanno aggirato l’ostacolo predeterminando dei profitti che nella pratica vanno a sostituire la mancata previsione degli stessi interessi.  Esistono anche degli indici di finanza islamica: FTSE Global Islamic Index Series International è stato costituito nel 1999 come la prima vera serie globale di indici islamici, allo scopo di analizzare i rendimenti delle principali compagnie le cui attività aderiscono ai principi della Sharia islamica. Un secondo indice è il Dow Jones Islamic Market Indexes creato per investitori che vogliono investire conformemente ai principi della finanza islamica. 

Un quadro realistico del mercato dei capitali di fede islamica lo ha tracciato Magdi Allam, noto giornalista columnist del Corriere della Sera, che in un recente articolo ha spiegatp come i soldi del golfo stiano conquistando la City per nulla rinunciando agli interessi. "La banca islamica più grande al mondo? È l’americana Citibank. Il centro della finanza islamica mondiale? È la City di Londra. Fare affari nel nome di Allah attira i più prestigiosi istituti di credito occidentali: dall’inglese Hsbc alla Deutsche Bank, dalle francesi Société Générale e Bnp Paribas all’olandese Abn Amro. Si tratta complessivamente di una torta di 200 miliardi di dollari, la cui materia prima si trova principalmente nei ricchi Paesi arabi del Golfo,ma i cui beneficiari risiedono spesso laddove non regna la legge islamica.

L’esempio dell’Islamic Bank of Britain, che ha visto la luce lo scorso novembre a Londra, è emblematico: l’80% del capitale iniziale, pari a 100 milioni di dollari, è stato raccolto nel Golfo, mentre l’80% degli investitori soggiornano in Gran Bretagna. Se poi si passano in rassegna i nomi dei dirigenti, si constata che l’80% sono degli affermati banchieri britannici che non hanno nulla a che fare con l’islam. Da quando i magnati della finanza internazionale hanno fiutato l’affare, si sono affrettati a aprire sportelli islamici prima nei Paesi musulmani, poi nei Paesi occidentali dove il peso economico delle comunità musulmane è crescente. Con un tasso di crescita annuo del 15% è un business che fa gola ai più.

Il segreto del successo è nel riuscire a far accettare i profitti dall’ingresso secondario, dopo essere stati rifiutati all’ingresso principale perché tacciati di usura. Recita il sacro Corano: «O voi che credete! Temete Dio! Rinunciate, se siete dei credenti, a ciò che vi resta dei profitti dell’usura. Si vi pentirete, avrete salvo il vostro capitale» (Sura II, 279). Ma si sa, le vie del Signore sono infinite. È possibile aggirare il divieto della riba, l’usura, introducendo il criterio della compartecipazione ai rischi e ai benefici dell’attività finanziaria.

In altri termini, portando i propri soldi in banca non si diventa clienti della banca, bensì azionisti relativamente a uno specifico progetto imprenditoriale. Con la mudaraba si crea una società in accomandita tra il capitale della banca e la partecipazione dell’«azionista». Nella musharakasi dà vita a una società a responsabilità limitata in cui l’«azionista» contribuisce con una parte di capitale. Ci sono altre denominazioni per una serie di attività che spaziano dal finanziamento di progetti commerciali e partecipazioni in imprese, a investimenti nel mercato azionario e soprattutto nell’edilizia.

Sono veramente lontani i tempi in cui l’Arabia Saudita, la culla dell’islam e la patria dell’ideologia wahhabita puritana, nutriva una radicata diffidenza nei confronti del denaro e dell’attività speculativa delle banche. Si pensi che l’Arabia Saudita ha emesso le sue prime banconote soltanto negli anni Sessanta, mentre in precedenza circolavano solo monete in argento e oro come avveniva nel commercio gestito dai beduini ancor prima dei tempi del profeta Mohammad (Maometto). Oggi all’ombra della sharia, la legge islamica, si fanno affari finanziari a gonfie vele. Il Wall Street Journal ha dedicato a questo un servizio in prima pagina dal titolo «Le banche islamiche si affermano nel mondo globale come un modo per fare affari». Insomma, business is business.

Quando la Citibank registra delle transazioni finanziarie, islamicamente corrette, per un ammontare di 6miliardi di dollari, che male c’è a continuare a scommettere in questo ibrido settore che coniuga il sacro e il profano, l’etica e il denaro? Al denaro non guardano in faccia né i sauditi della Bank Aljazira, nata sei anni fa e che oggi vanta entrate per circa 80 milioni di dollari, né la filiale turca della Hsbc, che ha accresciuto i crediti alle imprese da 50 milioni di dollari nel 2001 a 438 milioni nel 2004. Alla fine si è arrivati a una sostanziale laicizzazione della finanza islamica.

Lo sheikh Saied Tantawi, mufti d’Egitto, ovvero la principale autorità giuridica islamica, ha emesso una fatwa, un responso religioso, in cui considera halal, lecito il profitto «dato che il cliente sottoscrive volontariamente un accordo con la banca sulla percentuale dell’interesse». Tantawi si spinge fino a sostenere che «nessun versetto del Corano o detto della Sunna (i fatti attribuiti al profeta Mohammad) vietano il profitto». Perché il profitto non è usura. Si tratta solo di mettersi d’accordo sul significato delle parole. Tutto il mondo è paese." 

 

 

 

Finanza Islamica, [Stefano Masullo, 28/06/2005, dal convegno “fare impresa per gli stranieri in Italia”]

 

1. Il sistema finanziario islamico

Il sistema finanziario islamico, ovvero il sistema di banche commerciali, banche di investimento, banche offshore operanti nel rispetto delle norme dettate dal Corano, è diventato una forza con la quale oggi il sistema finanziario convenzionale deve confrontarsi. Dalla costituzione della prima banca islamica avvenuta circa 22 anni fa, Bahrain oggi ospita 16 istituzioni finanziarie islamiche delle quali 2 sono banche commerciali, 2 sono banche offshore e 12 sono banche di investimento. Il patrimonio totale di queste banche raggiunge la cifra di 1,6 miliardi di dollari. La dimensione globale del sistema finanziario islamico consiste in oltre 200 istituzioni con un totale di oltre 200 miliardi di dollari di fondi gestiti, una capitalizzazione degli istituti superiore ai 7 miliardi di dollari e un tasso di crescita annuale del 15% con previsioni di incremento nei prossimi anni. Il sistema finanziario islamico nel 1973 trova la sua data di nascita determinata dall’accordo tra i paesi membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica per la costituzione di una banca islamica internazionale finalizzata all’incremento dello sviluppo economico e al progresso sociale dei paesi musulmani, nel rispetto dei principi della shari’a ovvero della legge canonica rivelata dall’Islam e derivata dal Corano; nacque così nel 1975 l’Islamic Development Bank, la cui sede era a Jeddah in Arabia Saudita. Islamic Banking in Bahrain è un sistema in continua crescita e l’autorità monetaria del paese, Bahrain Monetary Agency perseguendo il fine di un consolidamento della positiva reputazione del paese come centro finanziario internazionale, ha raccomandato Alle banche islamiche operanti nel paese di aderire agli standards determinati da Accounting and Auditing Organization for Islamic Financial Institutions (AAOIFI); Bahrain è uno dei due paesi che adottano gli standards AAOIFI, insieme al Sudan. Il trattato che regola il sistema finanziario islamico determinato da AAOIFI è l’equivalente del trattato di Basilea per la vigilanza bancaria per le banche convenzionali. AAOIFI è stata fondata nel 1991, ha la sua sede a Bahrain, è composta da 71 membri che sono banche islamiche, banche convenzionali con sezioni deputate alla finanza islamica, società internazionali di revisione di 17 paesi. A conferma del ruolo di preminenza di Bahrain nel mondo finanziario arabo anche nel settore della finanza islamica, il paese è stato scelto come sede per ospitare una nuova istituzione nata recentemente, l’Islamic Agency for Credit rating: compito dell’Agenzia sarà determinare le potenzialità delle istituzioni finanziarie islamiche e valutare il loro volume di rischio nell’ambito del mercato monetario ed è indubbio che ciò ne incrementerà la fiducia negli investitori e rafforzerà il mercato finanziario islamico nell’ambito dello sviluppo dell’intero sistema economico islamico. Nell’ambito del rispetto della Shari’a le istituzioni finanziarie islamiche non possono investire o avere interessi in comune con società i cui business riguardino l?attività bancaria basata sul sistema degli interessi; l’alcool; il tabacco; il gioco; la produzione, la lavorazione e la confezione del maiale; tutte le attività che rechino offesa ai principi dell’Islam.



2. Il sistema bancario islamico: leggi e regolamenti

Il sistema bancario islamico costituisce un?alternativa al sistema bancario convenzionale basato sul concetto di interesse. Operare secondo i precetti della Sharia’a aiuta il raggiungimento degli obiettivi socio-economici della società islamica. Le banche islamiche adottano il principio del Mudaraba, cioè basato sul concetto di compartecipazione sulla fiducia, come base per i rapporti tra loro e l?investitore o il cliente depositante. Secondo questo concetto, le banche non hanno la facoltà legale di restituire la somma investita in caso di perdita a meno che non sia acclarato un comportamento negligente della banca o che comunque abbia violato i termini degli accordi di Mudaraba. D’altra parte, quando la banca fornisce il capitale all’investitore sulle basi di un contratto di Mudaraba, essa non può richiedere la restituzione del capitale se vi è una perdita nel corso dell’investimento a meno che da parte dell’imprenditore non vi sia stato un comportamento scorretto o abbia violato i termine dell’accordo di Mudaraba. In entrambi i casi, chi ha fornito il capitale affronta il rischio di una possibile perdita del suo investimento. Nei paesi dove esiste un sistema bancario convenzionale e uno islamico, le banche islamiche sono soggette a varie leggi e regolamenti. In alcuni di questi paesi le autorità monetarie trattano le banche islamiche come Finance House, cioè come istituzioni finanziarie specializzate nella concessione di prestiti a famiglie e imprese per acquisti rateali e operazioni di leasing ; in altri, le banche islamiche sono soggette a leggi e regolamenti propri delle banche convenzionali. In qualche paese le banche islamiche sono costitute in base a speciali decreti e non sono soggette al controllo delle Banche Centrali. Per migliorare la legislazione regolante l?attività delle banche islamiche, è essenziale per le autorità monetarie centrali stabilire regolamenti specifici che tengano conto della specificità delle operazioni finanziarie effettuate da chi opera secondo i criteri islamici. Le banche islamiche raccolgono fondi dalla clientela e forniscono a questa i normali servizi bancari. È perciò logico e appropriato che le banche islamiche siano supervisionate e regolamentate dall’autorità monetaria, vista la natura particolare del loro operato ; naturalmente una specifica istituzione islamica di controllo e supervisione aumenta la fiducia dei mercati e degli investitori nel sistema. Nelle procedure di supervisione delle banche islamiche, l?aspetto della liquidità deve essere controllato attentamente, specialmente in assenza di prestiti interbancari e mercati secondari accettabili per la Svaria. Alle banche islamiche generalmente è richiesto di mantenere i livelli di liquidità più alti di quelli delle banche convenzionali. Comunque, le banche centrali e le autorità monetarie, insieme con le banche islamiche, considerano che gli strumenti per investimenti a breve termine possano essere sviluppati senza violare i principi della Svaria, e questo permetterà alle banche islamiche di investire la loro liquidità in eccesso e vendere nel caso che la banca necessiti di liquidità. Questa possibilità avrà un impatto positivo sull’economia se le banche investiranno i loro eccessi di liquidità sui mercati interni.

Le riserve di cassa sono un altro strumento per controllare la liquidità del mercato e ciò è particolarmente utile per in caso di liquidazione e bancarotta per soddisfare le richieste dei creditori.

Le banche islamiche solitamente investono i loro fondi in specifici progetti. È perciò importante che le autorità monetarie essere i grado di valutare i rischi legati a questi investimenti e invitare le banche a mantenere adeguate scorte monetarie per quei progetti di investimento che possono presentare alti rischi o difficoltà.

L’esperienza di Bahrain Monetary Agency nei rapporti con le banche islamiche risale al 1979 quando la prima banca islamica, Bahrain Islamic Bank fu costituita, e da allora molte altre istituzioni finanziarie islamiche si sono stabilite a Bahrain, come abbiamo visto in precedenza. BMA ha imposto alle banche islamiche regolamenti che sono differenti da quelli delle banche convenzionali. Fino dal 1987, BMA ha introdotto un rendiconto trimestrale prudenziale specifico per le banche islamiche. Questi rendiconti sono usati per controllare la situazione finanziaria delle banche islamiche e aiutare l?Agenzia nell’analisi degli indici di redditività delle stesse, del loro livello di liquidità, delle esposizioni e dell’adeguatezza delle riserve. BMA ha anche introdotto la richiesta della presentazione di bilanci certificati per le banche islamiche sulla linea, nella forma e nella sostanza, di quelli presentati dalle banche convenzionali. BMA ha anche stabilito che sia le banche islamiche che quelle convenzionali debbano aderire agli standards internazionali di certificazione nella preparazione dei loro bilanci e che debbano fornire lo stesso tipo di informazioni nei loro rapporti



3. Il mercato finanziario Islamico

Lo sviluppo e la formalizzazione di un mercato finanziario islamico è da intendersi come il complemento naturale del sistema bancario. Nel 1999 un documento di intesa fu siglato in Malaysia da Bahrain Monetary Agency, Islamic Development Bank e altre istituzioni finanziarie del mondo islamico.Uno dei maggiori problemi che le istituzioni finanziarie islamiche incontrano è la mancanza di mezzi per poter gestire i loro fabbisogni di liquidità di giorno in giorno con il miglior profitto. Le banche associate alla The Bankers Society of Bahrain stanno lavorando per creare un mercato finanziario islamico e un mercato monetario per creare liquidità al sistema. Lo sviluppo di queste nuove strutture è essenziale poiché la fenomenale crescita delle banche islamiche non può che spingere un neonato mercato finanziario islamico verso un sicuro sviluppo.




4.Indici islamici

FTSE Global Islamic Index Series

Il FTSE International è stato costituito nel 1999 come la prima vera serie globale di indici islamici, allo scopo di analizzare i rendimenti delle principali compagnie le cui attività aderiscono ai principi della Sharia islamica.

Dow Jones Islamic Market Indexes

Dow Jones ha creato un gruppo di indici azionari per investitori che vogliono investire conformemente ai principi della finanza islamica.




5.Glossario dei principali termini finanziari islamici

A integrazione di quanto sopra trattato e per una maggior comprensione del sistema finanziario islamico verranno esposti di seguito i principali termini relativi:

Bai Salam

Contratto di vendita nel quale il compratore paga in anticipo i beni che gli saranno consegnati in futuro. Questo tipo di finanziamento è spesso usato quando un fabbricante ha bisogno di capitali per produrre un prodotto finito per l?acquirente. In cambio del pagamento in anticipo, il compratore usufruisce di un prezzo molto favorevole.

Bai Muajjal

Contratto che riguarda la vendita di beni su una base di pagamenti differiti. La banca o il finanziatore comprano i beni per conto del commerciante. La banca poi vende i beni al cliente a un prezzo stabilito, che includerà un aumento di prezzo che costituirà il profitto della banca o del finanziatore. L?imprenditore pagherà l?intero importo a una scadenza prestabilita o farà un pagamento rateale lungo un periodo concordato.

Gharar

Frode perpetuata nei confronti di una o più parti di un contratto stipulato facendo affidamento sull’ignoranza. Vi sono vari tipi di contratto considerati ?gharar?, i principali dei quali sono:

- La vendita di beni che il venditore è incapace di consegnare

- La vendita di beni senza una precisa descrizione, così come un negoziante vende vestiti di taglia imprecisata.

- La vendita di beni senza un prezzo evidenziato.

- Stipulare un contratto sulla base di una scadenza imprecisata.

- La vendita di beni sulla base di false descrizioni.

- La vendita di beni senza permettere al compratore di esaminare le merci.

Ijara (Affitto)

Contratto nel quale la banca o il finanziatore compra e affitta i beni all’imprenditore dietro il pagamento di un compenso. La durata dell’affitto così come il pagamento sono stabiliti in anticipo. La banca rimane proprietaria del bene. Questo tipo di contratto costituisce un classico prodotto finanziario islamico.

Ijara wa Iqtina (Affitto con riscatto)

Contratto simile all’Ijara tranne che per il fatto che l’imprenditore si assume la responsabilità di acquistare i beni alla fine del periodo di affitto. I pagamenti effettuati in anticipo costituiscono parte del prezzo di acquisto. Questo tipo di contratto basato sull’affitto con riscatto è comunemente usato per i finanziamenti immobiliari.

Istisna (Pagamenti progressivi)

Contratto di acquisto di beni nel quale il prezzo è pagato progressivamente secondo l’avanzamento del lavoro. Un esempio è costituito dall’acquisto di un immobile in costruzione nel quale i pagamenti al costruttore sono effettuati secondo gli stati di avanzamento dei lavori completati.

Murabaha

Contratto di vendita tra la banca e il suo cliente per la vendita di beni a un prezzo più un margine di profitto per la banca stabilito. Il contratto consiste nell’acquisto di beni da parte della banca che poi li vende al cliente con un sovrapprezzo stabilito. Il rimborso è solitamente rateale.

Mudaraba (Finanziamento fiduciario)

Accordo tra due parti delle quali una fornisce il 100% del capitale per un affare e l’altra, indicata come il mudarib, conduce l’affare usando le sue capacità. I profitti derivanti dall’affare sono distribuiti secondo percentuali stabilite in anticipo. Le perdite sono a carico solamente di chi fornisce il capitale mentre il mudarib perde solo il tempo, gli sforzi e la possibilità del guadagno derivanti dall’operazione. Il management è costituito unicamente dal mudarib. Il mudarib non partecipa alle perdite per la semplice ragione che, secondo i dettati della finanza islamica, uno non può perdere denaro se non ne ha contribuito all?apporto. Questo è uno dei modi più comuni di finanziamento islamico.

Musharaka

Questo è un classico accordo di compartecipazione. Tutte le parti contribuiscono al finanziamento di un affare. Le parti concordano in anticipo la percentuale dei profitti mentre le perdite sono divise secondo le quote di partecipazione al progetto. La spiegazione di ciò va di nuovo cercata nei fondamenti della finanza islamica, sempre per il motivo che uno non può perdere ciò che non ha contribuito. Il management dell’impresa è costituito da tutti, da alcuni o solo da uno dei compartecipanti.

Qard Hassan

Prestito senza interessi per scopi benefici o per eseguire finanziamenti a breve termine. Chi riceve il prestito è obbligato unicamente a restituirne l’intero importo anticipatogli.

Riba

Il termine significa letteralmente incremento o addizione. Tecnicamente indica qualsiasi incremento o vantaggio ottenuto da chi impresta somme di denaro come condizione del prestito. Qualsiasi importo garantito su un prestito o un investimento è riba. Riba in tutte le sue forme è proibito nell’Islam. Nei termini convenzionali, riba o interessi sono usati intercambiabilmente.

Sharia

La legge Islamica derivata da tre fonti: il Corano, l’Hadith, ovvero la tradizione relativa agli atti, parole o atteggiamenti del profeta Maometto, e la Sunnah.

Takaful

Forma di assicurazione islamica basata sul concetto coranico del Ta’awon o mutua assistenza. Essa assicura la protezione dei beni e delle proprietà e offre una congiunta divisione del rischio in caso di perdita di uno dei suoi membri. Takaful è simile a una comune assicurazione nella quale i membri sono sia gli assicuratori che gli assicurati. Il criterio convenzionale di assicurazione è proibito nell’Islam perché presenta molti elementi haram (illeciti) includenti gharar e riba.

 

 

I Banchi di credito - Il "segno giudaico" - La "morte nera" - I Monti di Pietà [dal libro : “breve storia degli ebrei d’Italia]

Intorno al 1000 in tutti i paesi cristiani vengono istituite le Corporazioni di arti e mestieri, per appartenere alle quali bisognava professare la fede cristiana; da questo momento gli Ebrei, esclusi da ogni a campo di attività, sono sospinti verso l’unica professione preclusa ai Cristiani: quella di banchieri (come è noto, la Chiesa proibisce di prestar denaro a interesse). La vita degli Ebrei subisce un mutamento radicale; non solo in Italia, ma in tutta Europa: facendo commercio di denaro si rendono necessari ovunque, ed è per questa sola ragione anche che ovunque sono tollerati. Gli Ebrei di Roma possono considerarsi i pionieri di questa nuova attività economica: i banchi di credito.

Questo mestiere veniva esercitato anche da Cristiani, specialmente italiani; ed è perciò che essi erano chiamati Lombardi, nome dato loro nei paesi d’oltre Alpe, sebbene fossero prevalentemente toscani e soprattutto fiorentini; ma dopo il III Concilio Lateranense (1179), in cui si era stabilito che fosse negata sepoltura cristiana a chi prestava denaro a interesse, gli Ebrei si resero più che mai necessari, e il loro lavoro aumentò considerevolmente. Si formarono così a tante piccole Comunità scaglionate in tutto il Paese; non c’era centro dell’Italia settentrionale o centrale che non avesse una Comunità ebraica. I rapporti tra gli Ebrei e il Comune o il Signore della città che li ospitava erano regolati da un contratto chiamato condotta. Con la condotta il Signore (o il Comune) garantiva agli Ebrei protezione, libertà di culto e il permesso di aprire banchi di pegni (i debitori lasciavano in pegno al banchiere qualche oggetto, che veniva restituito all’estinzione del debito; oppure, se questo non avveniva, era messo in vendita); in cambio gli Ebrei dovevano pagare forti tasse, che venivano detratte dai proventi degli interessi, il cui tasso era fissato dal 15 al 25%. Tra le varie clausole della condotta c’era questa: gli Ebrei dovevano tenere un registro dei conti. Secondo la consuetudine del tempo, gli Ebrei scrivevano in italiano con caratteri ebraici (anche in altri Paesi gli Ebrei scrivevano nella lingua nazionale con caratteri ebraici); questo fino a quando papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum (1555) proibì agli Ebrei di servirsi di tali caratteri per i loro registri.

Il IV Concilio Lateranense (1215), convocato da papa Innocenzo III, ordina che gli Ebrei viventi nei paesi cristiani portino come contrassegno una rotella di stoffa gialla cucita sulla parte sinistra del petto. Già nel 600 il Califfo Omar aveva ordinato che tutti i non mussulmani (ossia ebrei ed anche cristiani) viventi nei paesi arabi portassero una pezza di stoffa gialla cucita sul petto o sulla schiena. Ed ora papa Innocenzo III, dopo aver tentato ripetutamente e sempre inutilmente di convertire gli Ebrei, pensò di isolarli imponendo questo contrassegno (che per le donne era un velo giallo, il contrassegno delle meretrici). Il primo paese cristiano che impose agli Ebrei il "segno giudaico", fu l’Inghilterra (1218). In Italia tale disposizione fu adottata in epoche diverse secondo gli Stati; prima ad adottarla fu Venezia: una rotella gialla sostituita in seguito da un cappello giallo.

Le condizioni degli Ebrei a Roma e nello Stato pontificio vanno peggiorando: gli Ebrei devono fare le spese di due feste popolari che si tengono annualmente a Roma: una per il popolo in Piazza Navona, e l’altra per i soldati al Monte Testaccio. Per essere esonerati dall’obbligo umiliante di parteciparvi, gli Ebrei, fin dal 1312, pagano una forte tassa, che viene suddivisa fra tutte le Comunità dello Stato pontificio. Malgrado le tristi condizioni ambientali, gli Ebrei svolgono attività letteraria; e di quest’epoca ricorderemo il poeta Emanuele Romano, amico di Dante e forse suo coetaneo.

Nel 1348 scoppia in tutta Europa una terribile pestilenza, che fu chiamata "la morte nera" ; gli Ebrei vengono accusati di avvelenare i pozzi per diffondere la malattia: accusa che trova credito anche per il fatto che, vivendo essi segregati e seguendo rigorose norme igieniche, sconosciute ai più, la pestilenza mieteva fra loro minor numero di vittime. Questa calunnia si diffonde e provoca spaventose persecuzioni, specialmente in Germania; molti Ebrei tedeschi cercano rifugio in Italia e vanno ad ingrossare le già esistenti Comunità dell’Italia Settentrionale.

Già in epoche anteriori a quella in cui visse Lutero si manifestarono in vari Paesi cristiani fermenti di rivolta contro la Corte papale; e la Chiesa, per soffocarli, indice nel 1414 un Concilio ecumenico a Costanza con lo scopo di lottare per l’unità della Chiesa ed estirpare ogni forma di eresia (la Chiesa di Roma considera eretici tutti coloro che vivono fuori di essa). In questo Concilio viene ribadito l’ordine che gli Ebrei devono portare il marchio giallo (come già ricordato, un cappello giallo per gli uomini, e per le donne un velo giallo, che è anche il contrassegno delle meretrici). Preoccupati della situazione che si è venuta creando, rappresentanti di tutti gli Ebrei d’Italia si radunano nel 1416 a Bologna per tentare di trovare mezzi di salvezza di fronte alle minacce che si profilano da ogni parte. I più accaniti nemici degli Ebrei sono in quest’epoca i frati predicatori: Bernardino da Siena (poi canonizzato), per quarant’anni predica contro gli Ebrei, insistendo sulla necessità di imporre ovunque obbligo del "segno giudaico", e di confiscare ai "Giudei" tutti i denari "accumulati con l’usura"; Giovanni di Capistrano, responsabile della condanna al rogo di molti Ebrei; Bernardino da Feltre, la cui predicazione velenosa ha come conseguenza la cacciata degli Ebrei da Treviso, Vicenza, Bergamo, e altre città dell’Italia Settentrionale. Soprattutto quest’ultimo è tristemente noto per avere provocato il Processo di Trento (1475), un processo per omicidio rituale, che ebbe come conseguenza il massacro fra le torture di tutta la Comunità ebraica di Trento. Dopo questo processo, gli Ebrei furono espulsi da tutto il Trentino (a Riva c’era una Comunità abbastanza importante); e gli Ebrei lanciarono contro il Trentino il cherem (scomunica), che vige tuttora. Il bambino Simone, la cui morte fu attribuita agli Ebrei, fu poi beatificato dal papa Sisto V mediante una bolla (1588) in cui non si fa cenno ad omicidio rituale, perché altri papi avevano condannato questa calunnia (papa Innocenzo IV, nel XIII secolo, con quattro bolle). Nella bolla di papa Sisto V è detto soltanto che Simone da Trento fu "martirizzato ed ucciso dai perfidi Giudei in dispregio alla fede cristiana" .

In seguito comparvero, ma per breve tempo, Ebrei ancora a Riva e a Pergine.

Altra conseguenza della propaganda di odio di Bernardino da Feltre, che scagliava anatemi contro chi vivesse in relazione e buoni rapporti con Ebrei (e che in quel tempo esistessero buoni rapporti fra Ebrei e Cristiani lo prova, tra l’altro, il fatto che Leone Ebreo da Cremona, in occasione del matrimonio della figlia, invita tutta la popolazione a feste durate otto giorni, con grande indignazione del frate, che fu finalmente espulso da Firenze per le sue prediche piene di odio) è l’istituzione dei Monti di Pietà, che dovevano ostacolare l’attività economica degli Ebrei. A Bologna, per esempio, il Monte di Pietà fu istituito nel 1473 con la seguente definizione: Mons pietatis contra parvas ludaeorum usuras erectus.

 

 

 

 

Zedakà: più della carità [di Nachum Amsel, The ]ewish Encyclopedia of Moral and Ethical Issues, Jason Aronson Inc. Northvale, New Jersey and London; Tzedakah: More than charity, pag. 297 – 302]

 

Gli ebrei hanno sempre dato Zedakàin proporzioni molto più elevate di quello che si immaginerebbe dall'entità della popolazione. Secondo il Talmud, l'atto di dare Zedakàè parte essenziale del carattere ebraico (non che i non-ebrei non siano caritatevoli, ma è comunque propria dell'indole ebraica). L'U.J.A., la Federazione degli ebrei americani che coordina le opere di Zedakà, è una delle più grandi organizzazioni di beneficenza negli Stati Uniti, se non la più grande in assoluto, malgrado il fatto che gli ebrei rappresentino meno del due per cento della popolazione americana. Rispetto ad altri gruppi gli ebrei danno in Zedakà in proporzione maggiore in rapporto al loro reddito. Questo sradica la nozione che gli ebrei donano in grandi quantità solo per via di una loro presunta ricchezza.

Perché dovrebbe essere così? Perché questa mizvàè così importante da essere parte fondamentale del carattere dell'ebreo? Per quale motivo una persona qualsiasi, e particolarmente quelli che appartengono alla cosiddetta "me generation" degli ultimi anni, caratterizzati da una forte spinta egoistica, dovrebbero dare ad altri una parte del proprio denaro, guadagnato con il sudore della fronte? Oltre a queste domande generali, ci sono altre problematiche, più pragmatiche, da discutere a proposito della Zedakà, perché molti ebrei, per quanto siano caritatevoli, non ne sono al corrente. Per esempio, a quali organizzazioni bisogna dare priorità nel dare Zedakà? Qual è il metodo migliore? Proprio perché la Zedakàè così importante nell'ebraismo, le fonti ne hanno discusso a lungo.

 

L'importanza della Zedakà

Non a caso, gli ebrei hanno sempre dato un significato particolare a questa mizvà, cosa risulta chiaramente dall'analisi delle fonti. Per esempio, secondo il Talmud, la Zedakàè la forza più forte nel mondo, capace di prevalere su tutte le altre. Nell'opinione di Maimonide, questa mizvàè più importante di tutte le altre mizvoth(positive) e aggiunge che dovremmo stare molto attenti a metterla in pratica in modo corretto. Spiega poi che la Zedakàè il simbolo del primo ebreo, Abramo, e che è stata tramandata da allora a tutte le generazioni. Chiunque non adempia alla mizvàdella Zedakàviene chiamato peccatore e persona malvagia. Secondo il Talmud , è meglio dare Zedakàche portare tutti i sacrifici del Tempio, affermazione questa basata sul verso che dice specificamente che si preferisce la Zedakàai sacrifici.

Zedakàè una delle tre azioni dell'uomo che possono rovesciare un decreto sfavorevole, affermazione basata sul verso che dice che la Zedakàha il potere di salvare una persona anche dalla morte. Dice anche il Talmud che la Zedakàè pari a tutte le altre mizvotmesse insieme. Nel Talmud è anche scritto che ogni volta che una persona dà Zedakà, è come se avesse ricevuto personalmente la Presenza Divina, e che la Zedakàaiuta a portare la redenzione.

La Zedakàè la sola mizvàche si possa fare ponendo una condizione. Un ebreo non può dire, per esempio, osserverò lo Shabbat, ma solo se avrò un certo lavoro, perché l'osservanza dello Shabbat è un obbligo per tutti gli ebrei. Ma può benissimo dire, darò questa certa somma in Zedakàse otterrò un certo lavoro (o qualsiasi altra condizione); poi, nel caso che non ottenga il lavoro, non sarà tenuto a dare quella somma. Certo, esiste una quantità minima di Zedakache tutti sono obbligati a dare, ma oltre a questo minimo, si può porre delle condizioni per farla, e questo appunto non ha un parallelo in tutto l'ebraismo.

Il gabbai di Zedakà(la persona incaricata a gestire la Zeclakàdella comunità) viene paragonata alle stelle.Il Maharshà spiega il paragone dicendo che così come le stelle hanno un'influenza sul mondo, anche se non le si vedono sempre, così pure colui che distribuisce Zedakàè come un insegnante che ha una certa influenza sul mondo anche se raramente si riesce a rendersene conto. Si può comprendere in queste categorie tutti coloro che, senza essere visti, danno Zedakàdi un certo livello, cambiando il mondo in meglio e incidendo su di esso per molto tempo dopo la fine dell'atto iniziale di Zedakà, con una forza duratura. Forse, è in questo senso che possiamo interpretare il fatto che la Zedakàsalva l'uomo dalla morte: salva chi la riceve, in quanto rimane in vita per l'influenza che ha avuto la Zedakà; salva il donatore in quanto può veramente diventare "immortale" poiché l'effetto della sua Zedakàperdura dopo che cessa la vita fisica. Rashì allude proprio a questo quando dice che gli atti buoni dei giusti sono eterni perché continuano a rappresentare una persona anche dopo la morte.

 

La Zedakàebraica non è la carità cristiana

Si potrebbero anche scambiare le due parole Zedakàe carità, e a chi non ha dimestichezza né con la parola ebraica né con i concetti di Zedakà, potrebbero sembrare uguali. In realtà i due termini sono molto diversi, non solo dal punto di vista psicologico, ma anche da quello filosofico. È sufficiente fare un'analisi delle due parole per rendersi conto delle grandi differenze. La parola carità viene dalla parola latina caritas, che vuol dire amore, benevolenza; la parola filantropia deriva dalla parola greca philo, che vuol dire amore, e anthroposche vuol dire uomo. Così, filantropia vuol dire l'amore per l'uomo. In questo modo scopriamo che la base non-ebraica o cristiana di carità è l'amore: solo quando sento amore e compassione per l'altro, faccio la carità.

La parola Zedakàviene dalla parola ebraica zedek, che vuol dire giustizia oppure la cosa giusta da fare. L'ebreo allora è obbligato a dare Zedakàperché è la cosa giusta da fare, non perché ha un sentimento particolare per il destinatario.

Una differenza di approccio può essere vista nell'obbligatorietà che ha un ebreo a dare Zedakàanche a un mendicante puzzolente, imprecante, offensivo che esige la carità, anche se non si prova amore e compassione.

Da dove deriva quest'obbligo ebraico di dare Zedakà? Perché l'ebreo non può dire, "se quella persona impreca, non darò un premio per un simile comportamento?" Perché l'ebreo non può dire, "ho lavorato per i miei soldi e anche egli dovrebbe lavorare per i suoi?" Una risposta è che prima di tutto, i soldi non gli appartengono. Il Signore dice chiaramente che tutti i soldi, l'oro e l'argento del mondo appartengono a Lui, e non all'uomo. Dice il Salmista che nel mondo tutto appartiene a Dio, alludendo al fatto che nulla appartiene all'uomo. Nell'atto di dare Zedakà, dunque, l'ebreo restituisce a Dio ciò che è già Suo. La Mishnà ci insegna precisamente questo, basandosi su un verso del libro delle Cronache. Poiché il mondo già Gli appartiene, Egli ci dice di restituirne una piccola parte, dopodiché possiamo utilizzare il resto, che ancora Gli appartiene. Abbiamo l'obbligo di dare danaro, dunque, proprio perché non è nostro, e Dio ci impone di darne il 10 o il 20 per cento in Zedakà. come condizione per tenere il rimanente 80 o 90 per cento. È per questo motivo che alcuni ebrei aprono dei conti correnti bancari di Zedakà, dove, prima di versare il denaro nel conto corrente personale, depositano una percentuale del proprio reddito. Oltre al vantaggio psicologico (la persona non sente di dover prendere i soldi dalla propria tasca), anche dal punto di vista filosofico, questo è il modo più corretto di comportarsi, in quanto i soldi non appartengono mai alla persona. Possiamo capire adesso perché un ebreo deve dare Zedakà a quella persona sciatta, imprecante, malgrado i propri sentimenti: Dio, il padrone di tutto e quindi anche delle nostre ricchezze ci ha ordinato di dare. L'Abarbanel dice che dobbiamo considerare il nostro ruolo come quello di un intermediario che gestisce i soldi altrui. Quando il nostro lavoro consiste nell'usare i fondi di un altro, dobbiamo stare molto attenti ogni volta che decidiamo come investire e spendere i soldi. Se il proprietario ci ordina di investirli in un certo modo, dobbiamo obbedire alla richiesta, altrimenti il proprietario ci toglierà il danaro per darlo a un altro intermediario. La ricchezza che il Signore elargisce deve essere investita in parte in Zedakà, altrimenti Egli potrebbe servirsi di un altro intermediario.

Questo si può comprendere se accettiamo la premessa iniziale, ma si può anche metterla in discussione: Perché infatti, i soldi non appartengono alla persona? Tutto il mondo funziona come se il denaro fosse di proprietà dell'individuo che lo possiede, e anche nella legge ebraica, una persona non può rubare al compagno, affermando che il denaro appartiene a Dio. Allora se una persona lavora per ottenere il proprio salario, perché questo non è suo, ed egli non ne può fare ciò che vuole? Per capirlo, dobbiamo individuare perché e come una persona guadagna il SUO stipendio dal punto di vista ebraico. Ci sono solo tre modi per ottenere i soldi con mezzi legali: o il denaro proviene dal duro lavoro, o dalla fortuna, come per esempio una lotteria, oppure da un eredità o da un regalo. Se una persona lavora sodo per il suo denaro, è facile dire che sia stato ottenuto per il duro lavoro, ma tutti noi conosciamo persone che lavorano tanto o più degli altri e guadagnano comunque molto poco. Perché una persona laboriosa può accumulare grande ricchezza, mentre un'altra non ci riesce? Allora non è solo il lavoro stesso, la fatica, che fa guadagnare grandi quantità di soldi. L'individuo ricco è stato dotato di più talento, un fiuto più acuto per gli affari, l'abilità di correre più veloce con una palla o un'intelligenza più grande, dandogli un vantaggio che gli fa guadagnare di più. Secondo l'ebraismo, questi talenti vengono dal Signore, e mentre è vero che senza il duro lavoro, gli uomini non avrebbero potuto sviluppare questi talenti, il lavoro da solo sarebbe inutile per accumulare soldi. Così, secondo l'ebraismo anche i soldi ottenuti in questo modo appartengono a Dio.

E mentre generalmente la persona che vince una lotteria che si trova "nel posto giusto al momento giusto" si ritiene sia stata toccata dal caso, per l'ebraismo il caso non esiste. Secondo l'ebraismo Dio, per qualche ragione sconosciuta, voleva che questa persona avesse dei soldi, quindi, ancora una volta, il denaro risale alla volontà di Dio. Infine, un'eredità o un regalo differiscono poco dalle situazioni precedenti perché o è stato guadagnato attraverso il talento (e il duro lavoro) o era dovuto alla 'fortuna". Così tutto il denaro accumulato in questo modo è dovuto, in qualche modo, a Dio. Quando Egli ci chiede, dunque, di restituire il 10 o il 20 per cento dei soldi, abbiamo qualcosa di più di un obbligo morale: abbiamo un obbligo legale, perché in pratica Gli appartengono.

 

Perché ci sono i poveri?

Se è vero che il Signore vuole che i soldi guadagnati vadano ai poveri, perché non ha fatto in modo che essi avessero dei soldi sin dall'inizio? Perché esistono i poveri? Sarebbe un mondo migliore, senza così tanta sofferenza. Il malvagio Turnus Rufus ha fatto propria questa domanda  e la risposta è che Dio vuole fare di noi i Suoi emissari nel mondo. Una parte della missione dell'uomo è di continuare la creazione iniziata da Dio. Rabbì Akivà ha risposto a questa stessa domanda nel Midrash, dicendo che questo è il motivo per il quale non ci sono alberi di pane, anche se ogni cultura fa uso del pane e sarebbe stato logico per Dio di creare degli alberi di pane. Dio vuole che l'uomo lotti e che sia creativo, vivendo il processo arduo che comportano le undici azioni, dall'arare all'infornare, che servono per la produzione del pane. Ecco parte della missione dell'uomo: essere creativo nel mondo e completare la creazione iniziata da Dio. Inoltre, l'uomo ha il compito di migliorare il mondo, di "perfezionare il mondo". Parte di questa perfezione haluogo quando l'uomo tenta di restaurare almeno un po' l'equilibrio, dando Zedakà. Così, ora, uno dei versi  più strani della Torà acquista un senso. Dio dice che "non cesserà di esistere il povero nel mondo", e che, dunque, l'uomo deve aprire le sue mani e dare. Se la povertà esisterà sempre, perché cercare di dare ai poveri - tanto non aiuterà a risolvere la situazione? Tuttavia, possiamo comprendere ora che Dio ci sta dicendo che, siccome la condizione della povertà nel mondo esisterà sempre, anche il nostro compito per migliorarlo non cesserà.

 

Come dare Zedakà

Per quanto sia importante dare Zedakà, ancora più importante dell'atto stesso di dare è come la si dà. È particolarmente difficile e imbarazzante per una persona chiedere e dipendere da un altro essere per la sua sussistenza. Ecco perché preghiamo il Signore di non metterci mai in una situazione in cui dobbiamo dipendere dall'uomo, ma solo da Dio. Maimonide dice che una persona che si trova a dover chiedere Zedakàgià si sente senza dignità e depressa e quindi bisogna fare del tutto per non compromettere ancora di più la dignità di questa persona. Questo aspetto cruciale della Zedakàsi riflette in tutte le leggi in materia.

L'ottavo gradino di Zedakà, quello più basso, secondo Maimonide,  è di dare mostrandosi scuri in volto. Ancora secondo Maimonide,  si può salire di livello dando meno di quanto richiesto ma con faccia cordiale, cioè è preferibile dare di meno di quello di cui ha bisogno una persona, ma con buon umore, piuttosto che dare la somma intera ma con espressione cupa. L'atteggiamento e il metodo per dare Zedakàdunque sono più importanti della somma data.

Ogni passo successivo nell'ordine stabilito da Maimonide è una funzione della dignità di chi riceve Zedakà. È molto più dignitoso per il povero sapere chi gli ha dato Zedakà, purchè il donatore non conosca il destinatario, perché altrimenti soffrirebbe d'imbarazzo ogni volta che incontra il donatore per strada. Rimane tuttavia un certo grado di vergogna perché il destinatario sarà comunque consapevole della persona che ha dato ogni volta che lo incontra per strada. La situazione crea meno disagio quando il donatore conosce il destinatario, ma il destinatario non sa da chi ha ricevuto Zedakàperché in questo modo, il bisognoso non si sente in imbarazzo ogni volta che incontra il donatore.Rimane sempre però, una piccola misura di ignominia per il povero nel sapere che esiste una persona che sa di averle dato sostenimento. Molto più dignitosa è la situazione in cui né il donatore, né il destinatario si conoscono. Così si evita completamente un imbarazzo specifico e si ha solo l'imbarazzo generale di dover comunque accettare Zedakà. Questo concetto ha dato l'impulso per l'invenzione del bossolo, la scatola di Zedakàpresente in ogni casa, tramite la quale né il donatore, né il destinatario si conosceranno mai.

Secondo Maimonide, il livello più alto di Zedakànon è la scatola della Zedakàma dare alla persona un lavoro o un prestito.Per quale motivo questo è preferibile all'elemosina - quando a fine settimana i soldi sono sempre quelli? Perché questo è un metodo superiore di dare Zedakà? Quando una persona fa un lavoro, si sente produttivo e contribuisce alla società, non riceve da essa. Accettare denaro per un lavoro completato non è per nulla imbarazzante; è un atto di orgoglio, come l'orgoglio provato nel prendere la busta paga. Il fattore dignità nell'accettare questo tipo di soldi è molto alto e dunque il modo migliore di distribuire soldi ai poveri. Nello stesso modo, dare un prestito a una persona segnala la fiducia della banca o di chi dà il prestito che la persona lo ripagherà. È segno di rispetto per se stessi ricevere un prestito, in quanto a molte persone i prestiti vengono negati perché sono considerate soggetti a rischio (È un vecchio detto che le banche prestano i soldi solo se si può provare di non averne bisogno). Gli individui che prendono i prestiti più alti sono i più ricchi del mondo, quegli imprenditori che investono in enormi progetti. Dunque, ricevere un prestito piuttosto che l'elemosina fa sì che il beneficiato accresca la fiducia in Sé: ecco perché questo è il livello più alto di Zedakà. (Naturalmente il prestito va restituito senza interessi). Certo, è anche una forma valida di Zedakàse si può invogliare una persona a prendere Zedakàsotto forma di "prestito" senza chiedere di essere ripagati,  a patto che la persona creda veramente che è un prestito e che la dignità individuale non venga compromessa.

Ci sono molte altre leggi ebraiche che rafforzano il concetto primario che lo scopo della Zedakàè di preservare o di elevare la dignità della persona. Secondo il Talmud,un individuo che soddisfa una persona povera accogliendola nella giusta forma, riceve una benedizione più grande di uno che soddisfa la stessa persona dandole del denaro. Anche il povero ha l'obbligo di dare Zedakà. Perché? Dopotutto, i suoi soldi sono venuti dalla Zedakà. Ma si accresce la sua dignità quando lui dà a un altro povero. Tutti hanno un opinione più alta di sé quando danno piuttosto che quando ricevono. Inoltre, nel dare a un altro individuo, il povero si rende conto che c'è sempre qualcuno che sta peggio, una consapevolezza che aiuta sempre a non far pesare troppo la propria situazione.

Quando, negli Stati Uniti, la gente era costretta a fare la fila per avere l'assegno di sussidio, ci furono molti anziani, ebrei e non-ebrei, che rifiutavano questi soldi, pur avendone molto bisogno, semplicemente perché sentivano negata la loro dignità umana. Per molte persone fare la fila per un sussidio era molto imbarazzante. Un tempo a Gerusalemme  (che aveva anche essa i suoi poveri) vigeva un'usanza che tentava di risolvere questo problema. All'ora di cena, ognuno metteva una "bandierina" sulla propria porta per far vedere che in casa si stava mangiando e i poveri di tutta la città potevano entrare e cenare con le famiglie. Dopo cena le "bandierine" venivano tolte. Anche se è sempre possibile distribuire del cibo organizzando una mensa per i poveri o ricevendoli in maniera discreta dalla porta di servizio delle case, vi è un'enorme differenza fra questi metodi di distribuzione e invitare le persone a cenare insieme alle famiglie. Nessun ospite sente che sta togliendo del cibo al padrone di casa e quando si trattano i poveri come ospiti, la loro dignità non è compromessa. Ancora una volta, non è determinante l'entità della somma, ma la maniera con cui viene data.

Sinora abbiamo discusso della dignità del destinatario della Zedakà, ma il Talmud descrive il modo migliore per dare, e cioè di non dare per niente! È meglio convincere un altro a dare Zedakà, che darla di persona. Ancora una volta, è una questione di dignità personale perché è molto più facile per una persona distribuire i propri soldi che persuadere gli altri che la causa è meritevole. Un individuo che spinge gli altri a contribuire sente la soddisfazione di aver compiuto un'azione importante.

 

A chi, quanto e quando dare

Nell'Ebraismo c'è un chiaro ordine di priorità riguardante chi deve ricevere la Zedakà:il principio fondamentale è che i familiari bisognosi di aiuto hanno la precedenza; seguono in ordine di priorità i vicini e poi i propri concittadini. I poveri d'Israele e quelli di Gerusalemme in particolare, hanno una priorità speciale, perché Gerusalemme è considerata come la città natia.  Oggigiorno un ebreo ha l'obbligo di dare anche ai poveri non-ebrei e alle istituzioni non-ebraiche della sua città. I moderni esperti di halakhà discutono sulle priorità da dare ai vari enti. Quando è possibile è chiaramente preferibile dare direttamente a una persona povera, secondo le modalità succitate, piuttosto che alle organizzazioni ebraiche, come la UJA, gli ospedali, le scuole e le sinagoghe, anche se ciascuna di queste istituzioni aiuta individui indigenti.

Quale percentuale del proprio reddito bisogna dare in Zedakà? Anche se si crede erroneamente che la cifra ottimale sia il 10 per cento, cioè la decima, dal punto di vista ebraico, una persona dovrebbe dare il 20 per cento del proprio reddito in Zedakà.La cifra del 10 per cento è solo per la persona media, ma non è questo il modo per adempiere completamente alla mizvà, mentre la persona che dà meno del 10 per cento di Zedakàè considerato avaro. Ma come si calcola il 10 per cento, cioè, che cosa viene considerato come il reddito reale? Si possono togliere le tasse? Si può dedurre il mutuo ed altre spese? Quando comincia l'anno fiscale ebraico? Esiste il concetto di media annuale di reddito? Alcuni Maestri di Halakhà discutono sul come adempiere a questa mizvà. Tali discussioni sono molto tecniche, e suonano come le istruzioni del modello 740 e vanno ben oltre i limiti di questa discussione.

È preferibile dare piccole quantità di Zedakàogni giorno piuttosto che una somma grande una tantum, anche se le cifre totali sono le stesse, perché ogni atto di Zedakàè una mizvàin sé, e perché ogni volta che una persona adempie a una mizvà, un nuovo "difensore" di quella persona è creato in cielo. Inoltre, ogni mizvàe ogni colpa commessa da un individuo lo precedono nel mondo da venire.E, come abbiamo detto prima, ogni volta che una persona dà Zedakà, la Presenza Divina si posa su di lui.

 

Si può mai rifiutare di dare Zedakàa una persona che la chiede?

Purtroppo, anche nella comunità ebraica ci sono stati individui che hanno approfittato della generosità altrui e hanno cercato di defraudare chi dà Zedakà, affermando di essere bisognosi o di rappresentare organizzazioni inesistenti. Qual è il corretto approccio ebraico verso una persona di cui si ha il sospetto che non sia onesta? Si può rifiutare una donazione a questa persona?

Ancora una volta, la nostra preoccupazione principale dev'essere quella di preservare la dignità di chi ha veramente bisogno. Dice Maimonide  che una persona non può mai opporre un rifiuto a un povero. Certo, se si è certi che la persona che chiede del denaro sia un imbroglione ci si può rifiutare di dare a questa persona, però, in caso di dubbio, secondo Maimonide,se il bisogno è immediato, cioè, se la persona ha bisogno di cibo per sopravvivere, non lo si può mai rifiutare. Ma se il bisogno è meno immediato, come, per esempio, una richiesta di vestiario, lo si può fare aspettare mentre si fanno indagini sul suo conto, senza, però farlo sentire a disagio e in imbarazzo. In pratica, se un a persona viene alla porta, si può andare rapidamente nell'altra stanza per fare una telefonata senza che quello se ne accorga. Però, se una simile operazione non è possibile, è preferibile dare Zedakà, perché è meglio darla a nove individui, sospettati di essere disonesti piuttosto che rifiutarla alla decima che ne ha bisogno. Se regna l'incertezza, non si deve mandare via una persona a mani vuote, come dice Maimonide. Bisogna dire anche che se si dà una somma che viene restituita perché ritenuta insufficiente, si ha comunque adempiuto all'obbligo di Zedakàe non c'è bisogno di darne altra.

In sintesi, la mizvàdella Zedakàè fondamentale nell'Ebraismo ed è molto complessa e spesso difficile da mettere in pratica. Ciò nonostante, se tutti gli ebrei dovessero seguire l'approccio di Abarbanel e trattare il denaro che guadagnano come se fosse di qualcun altro, non solo sarebbe più facile adempiere all'obbligo di questa mizvà, ma anche la nostra sensibilità su come utilizzare i fondi in nostro possesso ne trarrebbe un grande beneficio.

 

 

NOTE :

 

“atti di zedakà, atti di giustizia perché Dio chiede questo a noi; non ci può essere nessun perdono divino, che è vincolato a quello umano, se non facciamo il possibile per ottimizzare i nostri rapporti con il nostro simile.”

 

“La Mitzvah è la chiave di una vita ebraica autentica e della santificazione della vita. Nessuna parola può tradurre appieno questo termine. La sua radice significa comandamento, ma mitzvah ha acquisito un significato più ampio: ci suggerisce la gioia di una azione intrapresa in favore degli altri e della gloria di Dio.” 

 




La Finanza Ebraica