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martedì 27 novembre 2007

Comunità dell’Isolotto

Incontro eucaristico

Domenica 25 novembre 2007


Letture bibliche


Dal Vangelo di Luca (10, 1-9)

Dopo queste cose, il Signore designò altri settanta discepoli e li mandò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dov'egli stesso stava per andare. E diceva loro: «La mèsse è grande, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il Signore della mèsse perché spinga degli operai nella sua mèsse. Andate; ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Non portate né borsa, né sacca, né calzari, e non salutate nessuno per via. In qualunque casa entriate, dite prima: "Pace a questa casa!". Se vi è lì un figlio di pace, la vostra pace riposerà su di lui; se no, ritornerà a voi. Rimanete in quella stessa casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno del suo salario. Non passate di casa in casa. In qualunque città entriate, se vi ricevono, mangiate ciò che vi sarà messo davanti, guarite i malati che ci saranno e dite loro: "Il regno di Dio si è avvicinato a voi".


Dal libro degli Atti (6,1-6)

In quei giorni, moltiplicandosi il numero dei discepoli, sorse un mormorio da parte degli ellenisti contro gli Ebrei, perché le loro vedove erano trascurate nell'assistenza quotidiana. I dodici, convocata la moltitudine dei discepoli, dissero: «Non è conveniente che noi lasciamo la Parola di Dio per servire alle mense. Pertanto, fratelli, cercate di trovare fra di voi sette uomini, dei quali si abbia buona testimonianza, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Quanto a noi, continueremo a dedicarci alla preghiera e al ministero della Parola».

Questa proposta piacque a tutta la moltitudine; ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmena e Nicola, proselito di Antiochia. Li presentarono agli apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.


Dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi (12,27-30)

Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua. E Dio ha posto nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori, poi miracoli, poi doni di guarigioni, assistenze, doni di governo, diversità di lingue. Sono forse tutti apostoli? Sono forse tutti profeti? Sono forse tutti dottori? Fanno tutti dei miracoli? Tutti hanno forse i doni di guarigioni? Parlano tutti in altre lingue? Interpretano tutti? Voi, però, desiderate ardentemente i carismi maggiori!





(A cura della CdB di Pinerolo e della segreteria nazionale cdb)

Note per il collegamento seminariale – Tirrenia 8-9 dicembre 2007

MINISTERI/SERVIZI: QUALI? COME ESERCITARLI?


E’ bene che l’argomento sia lasciato molto aperto, per non perdere nulla della ricchezza della varietà delle nostre esperienze: l’attualità e i percorsi per arrivarci. Definire il tema, indicando alcune “piste” piuttosto che altre, può orientare lo scambio e questo potrebbe rivelarsi impoverente.

Ci limitiamo quindi a richiamare i “titoli” dei capitoli che abbiamo aperto insieme a Firenze, nel corso della riunione del collegamento nazionale, lasciando ai due interventi introduttivi e, poi, allo scambio nei piccoli gruppi la massima libertà possibile per le riflessioni e le proposte.

• E’ il presente che ci invita/spinge a interrogarci sul futuro, non per investire sugli altri (ad es: i nostri figli e le nostre figlie...) né per costruire associazioni benefiche o circoli teologici... ma per dare possibilità nuove al nostro desiderio di comunità:

• lavoro collettivo

• valorizzando le capacità (doni/carismi...) di ciascuno/a

• riconoscendo con rispetto tutte le differenze

• costruendo insieme spazi in cui ciascuno/a si senta e viva da protagonista

• Ognuno/a parta da sé: dal proprio pensiero critico, che nella CdB si è rafforzato e adesso si rivolge alla stessa CdB, cercando come andare oltre. “Di base” significa, soprattutto, laicità, capacità di pensiero personale autonomo, capacità di stare nelle relazioni con cura e rispetto di ogni differenza, senza sottrarci agli scambi. La dimensione comunitaria della preghiera, della ricerca, delle varie iniziative, sostiene il singolo e la singola e rende visibile la dimensione collettiva del cammino del creato verso la felicità. E’ un desiderio comune a molti/e, non a tutti/e: anche questo fa parte delle differenze.

• Cos’è che ci tiene insieme, che ci convoca ogni volta, che crea anche conflitti al nostro interno?... Il desiderio che le relazioni siano il motore del nostro essere comunità: in particolare tra chi vi cammina da oltre 30 anni, desiderando sperimentare modalità diverse, e chi vi arriva per la prima volta, non conoscendo nulla dei nostri percorsi personali, comunitari e del movimento. Ci tiene insieme, anche, il nostro bisogno e desiderio di relazioni che rispettino la fragilità e parzialità di ognuno/a, che aiutino a convivere tutte le differenze che ci appartengono, che sostengano e incoraggino il nostro bisogno/desiderio di spiritualità, di ricerca, di affidamento... E il desiderio che tutto questo si possa realizzare nella massima libertà personale possibile, capace di guidarci oltre tutti i confini, sorretti/e da un’etica della responsabilità personale e collettiva che ci faccia compagni e compagne di strada di ogni uomo e di ogni donna che orientano la propria vita a questo orizzonte per l’umanità e l’intero creato.

• “Futuro” quindi significa ripensare e riorganizzare continuamente il presente, il nostro qui e ora. Parlare di futuro significa adeguare costantemente i nostri strumenti per facilitare la nostra crescita individuale e collettiva nell’autoformazione.

• Nel pensiero sulla riorganizzazione ci stanno tutti i discorsi fatti e da fare sui “ministeri”: funzioni, servizi, ruoli, modalità di stare nelle relazioni... Ad esempio: che servizio è il nostro se chi viene in comunità non può sentirsi protagonista perché trova tutto già fatto e detto? Mentre può farci un grande servizio nominando i suoi disagi e le nostre piccole e grandi incoerenze...

• E’ conveniente ripensare anche i nostri linguaggi: ministeri, carismi, servizi, ruoli, futuro, direzione, modelli, ecc... Cercare parole nuove, non consumate, ci aiuta a liberarci dal rischio della conservazione, della cristallizzazione delle nostre buone pratiche: in questo ci possono aiutare molto le elaborazioni e le pratiche delle donne. Relazioni e circolarità: per facilitare la nascita di energie nuove positive, in noi e intorno a noi, che incarnino e sostengano l’annuncio della “buona notizia”.

 

Una comunità che guarda avanti


(da: Una comunità che guarda avanti, F. Barbero, Viottoli 2004, pagg. 29-30).


“E' mia opinione che le comunità cristiane di base italiane abbiano accantonato, rimosso o addirittura rinunciato ad un discorso biblico, storico, teologico e pastorale profondo e aderente alla realtà sul terreno del ministero che vada oltre una genericità ed una vaghezza piuttosto problematiche e talvolta sconcertanti. Ravviso qui un punto debole, un tallone d'Achille delle comunità cristiane di base non solo italiane. Infatti non ci si può illudere. Non sono sufficienti né la declericalizzazione, né la pari opportunità di ministero di uomini e donne, né il riconoscimento del sacerdozio universale, tappe peraltro necessarie.

A mio avviso, un movimento vivo e capace di costruirsi delle prospettive sa accogliere chi si rende disponibile, possiede una capacità calamitante verso persone che desiderano riconvertire il loro servizio comunitario e nello stesso tempo avverte il bisogno di darsi ministri/e che siano "attrezzati" per questo servizio alla comunità. Sostanzialmente, aldilà del populismo ecclesiologico e del sogno spontaneistico, temo che, qualora vengano a mancare i preti che oggi esercitano un ministero di animazione nelle varie comunità e nei gruppi, il cammino comunitario abbia vita breve. Manca una riflessione profonda, realistica, sulla ‘cura pastorale’ di una comunità e sulla rilevanza del ministero, come uno degli strumenti di riconoscibilità della comunità stessa. Così pure, per quanto concerne le "parrocchie alternative", ho il timore che si abbia scarsa consapevolezza del fatto che, rimossi e sostituiti i parroci, tutto possa essere normalizzato.

sappia darsi i necessari ministeri. …

La lunga esperienza del movimento cristiano di base mi ha insegnato che, dove non c'è stata questa attenzione, la vita comunitaria si è presto o tardi svuotata o spenta. Dove, invece, si è cercato di costruire concretamente delle prassi ministeriali, la vita comunitaria conosce uno spessore diverso, sia a livello umano che evangelico. L'assenza della "cura pastorale", come nucleo essenziale del ministero, rischia di disperdere le stupende risorse e le feconde originalità che nella chiesa di base trovano espressione, specialmente nelle comunità cristiane di base


(Parte conclusiva dell’intervista a F. Barbero Viottoli, N° 2 - 2006):


D) Ma le comunità cristiane di base riusciranno a vivere dopo i Franzoni, i Mazzi, i Vigli...?

R) Questa è la speranza, anche se faccio fatica a vedere come proseguirà la comunità dell’Isolotto senza Mazzi e Gomiti o la comunità di San Paolo senza Franzoni o la comunità di Olbia senza Tonino Cau... Qui la realtà non fa sconti e nella mia vita non ho visto nessuna realtà di base proseguire in modo aperto e fecondo senza una forte presenza ministeriale. In ogni caso c’è sempre dell’imprevisto che Dio ci regala e il percorso delle comunità può subire modificazioni e rinnovamenti. Se non credessimo nell’inedito, che cristiani/e saremmo? L’importante, a mio avviso, è avere la consapevolezza dei problemi e cercare delle soluzioni... So che nel movimento altri ragionano in modo diverso dal mio e sviluppano una riflessione sull’autogestione comunitaria che oggi io non trovo realistica. Pensare la comunità nei termini di un collettivo che si autogestisce mi pare molto semplice sulla carta e molto affascinante, ma poco realistico. Un collettivo, assunto senza ulteriori specificazioni, soggiace, a mio avviso, al rischio di essere mitizzato. Non è questa una comunità idealizzata? Preferisco pensare che la comunità per vivere abbia bisogno di un “collegio strutturato”. Il collegium, che ha trovato molte “versioni” nella tradizione sia ebraica che cristiana, è un gruppo cosciente di dover svolgere mansioni e assumere responsabilità ben individuate e distribuite, che riceve tale incarico dalla comunità. In esso esiste un/una presidente, un moderatore o altro coordinatore. Chi svolge uno di questi servizi non deve nascondersi, ma vivere l’autorità-autorevolezza con umiltà, in spirito di servizio, nella consapevolezza del ministero che gli è affidato. Nel tempo della “società liquida” (di cui ci parlano diffusamente le opere di Zygmunt Bauman), con i suoi accentuati tratti di individualismo, in cui “si attribuisce il carattere della permanenza unicamente allo stato di transitorietà”, spesso anche nelle relazioni e negli impegni, può una comunità vivere come un collettivo di per sé costruttivo e duraturo? Sono necessarie, a mio avviso, responsabilità diverse, divise e personalizzate, da esercitare al fine della crescita collettiva, dentro una strada collettiva. Il collettivo nasconde il pericolo di un leaderaggio non nominato e quindi meno soggetto alla verifica comunitaria. Il collegium invece conosce la possibilità di dare un nome e un limite a funzioni e responsabilità ben individuate. …

In buona sostanza... mi sembra di dover constatare e di capire che, senza la presenza di ministri/e ordinati/e nelle comunità e anche dalle comunità, sia assai difficile pensare ad un movimento che non si riduca a piccoli gruppi, sempre più esposti al rischio dell’isolamento e dell’esaurimento. Si noti che io intendo ministro ordinato o consacrato nella accezione ecumenica più ampia, come ho documentato in alcuni miei scritti: uomo, donna, sacerdote, presbitero, pastore/a, animatore/animatrice riconosciuto e “ordinato-consacrato” da un sinodo, da un vescovo o dalla sua comunità.

Il ministero ordinato di una persona preparata ed autorevole potrà più facilmente, a mio avviso, favorire l’espressione delle altrui ministerialità e delle “comunicazioni” con altre realtà ecclesiali. Spesso il ministro ordinato potrà svolgere in maniera particolare il servizio dell’ascolto dei fratelli e delle sorelle, accompagnare il cammino dei più deboli, offrire stimoli alla ricerca, favorire la “pontalità”. La mia esperienza personale di presbitero mi dice che moltissime persone oggi desiderano e cercano momenti di dialogo personale riservato e qualificato che spesso aprono anche la strada ad una esperienza comunitaria. Spesso, almeno per un certo periodo di tempo, il “pastore”, la “pastora” rappresentano un riferimento utile o addirittura necessario per talune persone.

E’ importante lavorare insieme e scommettere fiduciosamente con le nostre reali diversità che sono la vera ricchezza di un cammino di fede comunitaria. E poi il problema del ministero e le scelte che si compiono non sono dogmi, ma appartengono all’area del contingente, mutevole, opinabile. Siccome Gesù non ha direttamente fondato nessuna chiesa, nel senso che non ha dato vita ad una religione separata dall’ebraismo, non possiamo far risalire a lui nessuna struttura ecclesiale. Gesù ha dato al suo gruppo una identità, ma non ha in alcun modo lasciato il progetto ministeriale preciso per la futura chiesa. Ciò significa che le strutture ministeriali di ieri, di oggi e di domani sono totalmente affidate alla nostra responsabilità, libertà e creatività. Ogni “ordinamento” è provvisorio, aperto a nuove esigenze e nuove decisioni. L’importante non è la permanenza di una determinata forma comunitaria, ma il suo essere funzionale alla testimonianza del regno di Dio. Il nostro dibattere attorno alla ministerialità ha senso solo se è finalizzato a fare in modo che ciascuno/a di noi e le nostre singole esperienze comunitarie siano sempre più a servizio del regno di Dio. L’elemento decisivo è che l’evangelo sia predicato e vissuto. La comunità è in tutto e per tutto subordinata a questa testimonianza. Ecco perché tutte le questioni attinenti la strutturazione comunitaria sono secondarie e suscettibili di tanti tentativi. Il che è molto liberante e responsabilizzante. Soprattutto è sempre provvisorio.

Comunità dell’Isolotto

Incontro eucaristico

Domenica 25 novembre 2007


Letture bibliche


Dal Vangelo di Luca (10, 1-9)

Dopo queste cose, il Signore designò altri settanta discepoli e li mandò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dov'egli stesso stava per andare. E diceva loro: «La mèsse è grande, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il Signore della mèsse perché spinga degli operai nella sua mèsse. Andate; ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Non portate né borsa, né sacca, né calzari, e non salutate nessuno per via. In qualunque casa entriate, dite prima: "Pace a questa casa!". Se vi è lì un figlio di pace, la vostra pace riposerà su di lui; se no, ritornerà a voi. Rimanete in quella stessa casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno del suo salario. Non passate di casa in casa. In qualunque città entriate, se vi ricevono, mangiate ciò che vi sarà messo davanti, guarite i malati che ci saranno e dite loro: "Il regno di Dio si è avvicinato a voi".


Dal libro degli Atti (6,1-6)

In quei giorni, moltiplicandosi il numero dei discepoli, sorse un mormorio da parte degli ellenisti contro gli Ebrei, perché le loro vedove erano trascurate nell'assistenza quotidiana. I dodici, convocata la moltitudine dei discepoli, dissero: «Non è conveniente che noi lasciamo la Parola di Dio per servire alle mense. Pertanto, fratelli, cercate di trovare fra di voi sette uomini, dei quali si abbia buona testimonianza, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Quanto a noi, continueremo a dedicarci alla preghiera e al ministero della Parola».

Questa proposta piacque a tutta la moltitudine; ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmena e Nicola, proselito di Antiochia. Li presentarono agli apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.


Dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi (12,27-30)

Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua. E Dio ha posto nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori, poi miracoli, poi doni di guarigioni, assistenze, doni di governo, diversità di lingue. Sono forse tutti apostoli? Sono forse tutti profeti? Sono forse tutti dottori? Fanno tutti dei miracoli? Tutti hanno forse i doni di guarigioni? Parlano tutti in altre lingue? Interpretano tutti? Voi, però, desiderate ardentemente i carismi maggiori!





(A cura della CdB di Pinerolo e della segreteria nazionale cdb)

Note per il collegamento seminariale – Tirrenia 8-9 dicembre 2007

MINISTERI/SERVIZI: QUALI? COME ESERCITARLI?


E’ bene che l’argomento sia lasciato molto aperto, per non perdere nulla della ricchezza della varietà delle nostre esperienze: l’attualità e i percorsi per arrivarci. Definire il tema, indicando alcune “piste” piuttosto che altre, può orientare lo scambio e questo potrebbe rivelarsi impoverente.

Ci limitiamo quindi a richiamare i “titoli” dei capitoli che abbiamo aperto insieme a Firenze, nel corso della riunione del collegamento nazionale, lasciando ai due interventi introduttivi e, poi, allo scambio nei piccoli gruppi la massima libertà possibile per le riflessioni e le proposte.

• E’ il presente che ci invita/spinge a interrogarci sul futuro, non per investire sugli altri (ad es: i nostri figli e le nostre figlie...) né per costruire associazioni benefiche o circoli teologici... ma per dare possibilità nuove al nostro desiderio di comunità:

• lavoro collettivo

• valorizzando le capacità (doni/carismi...) di ciascuno/a

• riconoscendo con rispetto tutte le differenze

• costruendo insieme spazi in cui ciascuno/a si senta e viva da protagonista

• Ognuno/a parta da sé: dal proprio pensiero critico, che nella CdB si è rafforzato e adesso si rivolge alla stessa CdB, cercando come andare oltre. “Di base” significa, soprattutto, laicità, capacità di pensiero personale autonomo, capacità di stare nelle relazioni con cura e rispetto di ogni differenza, senza sottrarci agli scambi. La dimensione comunitaria della preghiera, della ricerca, delle varie iniziative, sostiene il singolo e la singola e rende visibile la dimensione collettiva del cammino del creato verso la felicità. E’ un desiderio comune a molti/e, non a tutti/e: anche questo fa parte delle differenze.

• Cos’è che ci tiene insieme, che ci convoca ogni volta, che crea anche conflitti al nostro interno?... Il desiderio che le relazioni siano il motore del nostro essere comunità: in particolare tra chi vi cammina da oltre 30 anni, desiderando sperimentare modalità diverse, e chi vi arriva per la prima volta, non conoscendo nulla dei nostri percorsi personali, comunitari e del movimento. Ci tiene insieme, anche, il nostro bisogno e desiderio di relazioni che rispettino la fragilità e parzialità di ognuno/a, che aiutino a convivere tutte le differenze che ci appartengono, che sostengano e incoraggino il nostro bisogno/desiderio di spiritualità, di ricerca, di affidamento... E il desiderio che tutto questo si possa realizzare nella massima libertà personale possibile, capace di guidarci oltre tutti i confini, sorretti/e da un’etica della responsabilità personale e collettiva che ci faccia compagni e compagne di strada di ogni uomo e di ogni donna che orientano la propria vita a questo orizzonte per l’umanità e l’intero creato.

• “Futuro” quindi significa ripensare e riorganizzare continuamente il presente, il nostro qui e ora. Parlare di futuro significa adeguare costantemente i nostri strumenti per facilitare la nostra crescita individuale e collettiva nell’autoformazione.

• Nel pensiero sulla riorganizzazione ci stanno tutti i discorsi fatti e da fare sui “ministeri”: funzioni, servizi, ruoli, modalità di stare nelle relazioni... Ad esempio: che servizio è il nostro se chi viene in comunità non può sentirsi protagonista perché trova tutto già fatto e detto? Mentre può farci un grande servizio nominando i suoi disagi e le nostre piccole e grandi incoerenze...

• E’ conveniente ripensare anche i nostri linguaggi: ministeri, carismi, servizi, ruoli, futuro, direzione, modelli, ecc... Cercare parole nuove, non consumate, ci aiuta a liberarci dal rischio della conservazione, della cristallizzazione delle nostre buone pratiche: in questo ci possono aiutare molto le elaborazioni e le pratiche delle donne. Relazioni e circolarità: per facilitare la nascita di energie nuove positive, in noi e intorno a noi, che incarnino e sostengano l’annuncio della “buona notizia”.

 

Una comunità che guarda avanti


(da: Una comunità che guarda avanti, F. Barbero, Viottoli 2004, pagg. 29-30).


“E' mia opinione che le comunità cristiane di base italiane abbiano accantonato, rimosso o addirittura rinunciato ad un discorso biblico, storico, teologico e pastorale profondo e aderente alla realtà sul terreno del ministero che vada oltre una genericità ed una vaghezza piuttosto problematiche e talvolta sconcertanti. Ravviso qui un punto debole, un tallone d'Achille delle comunità cristiane di base non solo italiane. Infatti non ci si può illudere. Non sono sufficienti né la declericalizzazione, né la pari opportunità di ministero di uomini e donne, né il riconoscimento del sacerdozio universale, tappe peraltro necessarie.

A mio avviso, un movimento vivo e capace di costruirsi delle prospettive sa accogliere chi si rende disponibile, possiede una capacità calamitante verso persone che desiderano riconvertire il loro servizio comunitario e nello stesso tempo avverte il bisogno di darsi ministri/e che siano "attrezzati" per questo servizio alla comunità. Sostanzialmente, aldilà del populismo ecclesiologico e del sogno spontaneistico, temo che, qualora vengano a mancare i preti che oggi esercitano un ministero di animazione nelle varie comunità e nei gruppi, il cammino comunitario abbia vita breve. Manca una riflessione profonda, realistica, sulla ‘cura pastorale’ di una comunità e sulla rilevanza del ministero, come uno degli strumenti di riconoscibilità della comunità stessa. Così pure, per quanto concerne le "parrocchie alternative", ho il timore che si abbia scarsa consapevolezza del fatto che, rimossi e sostituiti i parroci, tutto possa essere normalizzato.

sappia darsi i necessari ministeri. …

La lunga esperienza del movimento cristiano di base mi ha insegnato che, dove non c'è stata questa attenzione, la vita comunitaria si è presto o tardi svuotata o spenta. Dove, invece, si è cercato di costruire concretamente delle prassi ministeriali, la vita comunitaria conosce uno spessore diverso, sia a livello umano che evangelico. L'assenza della "cura pastorale", come nucleo essenziale del ministero, rischia di disperdere le stupende risorse e le feconde originalità che nella chiesa di base trovano espressione, specialmente nelle comunità cristiane di base


(Parte conclusiva dell’intervista a F. Barbero Viottoli, N° 2 - 2006):


D) Ma le comunità cristiane di base riusciranno a vivere dopo i Franzoni, i Mazzi, i Vigli...?

R) Questa è la speranza, anche se faccio fatica a vedere come proseguirà la comunità dell’Isolotto senza Mazzi e Gomiti o la comunità di San Paolo senza Franzoni o la comunità di Olbia senza Tonino Cau... Qui la realtà non fa sconti e nella mia vita non ho visto nessuna realtà di base proseguire in modo aperto e fecondo senza una forte presenza ministeriale. In ogni caso c’è sempre dell’imprevisto che Dio ci regala e il percorso delle comunità può subire modificazioni e rinnovamenti. Se non credessimo nell’inedito, che cristiani/e saremmo? L’importante, a mio avviso, è avere la consapevolezza dei problemi e cercare delle soluzioni... So che nel movimento altri ragionano in modo diverso dal mio e sviluppano una riflessione sull’autogestione comunitaria che oggi io non trovo realistica. Pensare la comunità nei termini di un collettivo che si autogestisce mi pare molto semplice sulla carta e molto affascinante, ma poco realistico. Un collettivo, assunto senza ulteriori specificazioni, soggiace, a mio avviso, al rischio di essere mitizzato. Non è questa una comunità idealizzata? Preferisco pensare che la comunità per vivere abbia bisogno di un “collegio strutturato”. Il collegium, che ha trovato molte “versioni” nella tradizione sia ebraica che cristiana, è un gruppo cosciente di dover svolgere mansioni e assumere responsabilità ben individuate e distribuite, che riceve tale incarico dalla comunità. In esso esiste un/una presidente, un moderatore o altro coordinatore. Chi svolge uno di questi servizi non deve nascondersi, ma vivere l’autorità-autorevolezza con umiltà, in spirito di servizio, nella consapevolezza del ministero che gli è affidato. Nel tempo della “società liquida” (di cui ci parlano diffusamente le opere di Zygmunt Bauman), con i suoi accentuati tratti di individualismo, in cui “si attribuisce il carattere della permanenza unicamente allo stato di transitorietà”, spesso anche nelle relazioni e negli impegni, può una comunità vivere come un collettivo di per sé costruttivo e duraturo? Sono necessarie, a mio avviso, responsabilità diverse, divise e personalizzate, da esercitare al fine della crescita collettiva, dentro una strada collettiva. Il collettivo nasconde il pericolo di un leaderaggio non nominato e quindi meno soggetto alla verifica comunitaria. Il collegium invece conosce la possibilità di dare un nome e un limite a funzioni e responsabilità ben individuate. …

In buona sostanza... mi sembra di dover constatare e di capire che, senza la presenza di ministri/e ordinati/e nelle comunità e anche dalle comunità, sia assai difficile pensare ad un movimento che non si riduca a piccoli gruppi, sempre più esposti al rischio dell’isolamento e dell’esaurimento. Si noti che io intendo ministro ordinato o consacrato nella accezione ecumenica più ampia, come ho documentato in alcuni miei scritti: uomo, donna, sacerdote, presbitero, pastore/a, animatore/animatrice riconosciuto e “ordinato-consacrato” da un sinodo, da un vescovo o dalla sua comunità.

Il ministero ordinato di una persona preparata ed autorevole potrà più facilmente, a mio avviso, favorire l’espressione delle altrui ministerialità e delle “comunicazioni” con altre realtà ecclesiali. Spesso il ministro ordinato potrà svolgere in maniera particolare il servizio dell’ascolto dei fratelli e delle sorelle, accompagnare il cammino dei più deboli, offrire stimoli alla ricerca, favorire la “pontalità”. La mia esperienza personale di presbitero mi dice che moltissime persone oggi desiderano e cercano momenti di dialogo personale riservato e qualificato che spesso aprono anche la strada ad una esperienza comunitaria. Spesso, almeno per un certo periodo di tempo, il “pastore”, la “pastora” rappresentano un riferimento utile o addirittura necessario per talune persone.

E’ importante lavorare insieme e scommettere fiduciosamente con le nostre reali diversità che sono la vera ricchezza di un cammino di fede comunitaria. E poi il problema del ministero e le scelte che si compiono non sono dogmi, ma appartengono all’area del contingente, mutevole, opinabile. Siccome Gesù non ha direttamente fondato nessuna chiesa, nel senso che non ha dato vita ad una religione separata dall’ebraismo, non possiamo far risalire a lui nessuna struttura ecclesiale. Gesù ha dato al suo gruppo una identità, ma non ha in alcun modo lasciato il progetto ministeriale preciso per la futura chiesa. Ciò significa che le strutture ministeriali di ieri, di oggi e di domani sono totalmente affidate alla nostra responsabilità, libertà e creatività. Ogni “ordinamento” è provvisorio, aperto a nuove esigenze e nuove decisioni. L’importante non è la permanenza di una determinata forma comunitaria, ma il suo essere funzionale alla testimonianza del regno di Dio. Il nostro dibattere attorno alla ministerialità ha senso solo se è finalizzato a fare in modo che ciascuno/a di noi e le nostre singole esperienze comunitarie siano sempre più a servizio del regno di Dio. L’elemento decisivo è che l’evangelo sia predicato e vissuto. La comunità è in tutto e per tutto subordinata a questa testimonianza. Ecco perché tutte le questioni attinenti la strutturazione comunitaria sono secondarie e suscettibili di tanti tentativi. Il che è molto liberante e responsabilizzante. Soprattutto è sempre provvisorio.

lunedì 26 novembre 2007

Venezuela - il rosso e il nero.


Se la Chiesa dei vescovi non ama Chavez, la Chiesa di base è dalla sua parte. Religiose, parroci e missionari mescolati alla gente non sono d’accordo sull’anatema della conferenza episcopale. E nelle prediche della domenica invitano ad approvare il referendum tanto che a Maracaibo, l’arcivescovo Ubaldi Santana, ha censurato l’omelia domenicale di padre Vidal Atencio rimproverandogli di mettere confusione nelle idee dei fedeli. Grandi università private ( e a pagamento ) protestano con i loro studenti; le prime università statali ( gratuite ) scendono in piazza per appoggiare il referendum.

(Domenica 2 dicembre si vota la nuova Costituzione)

Venezuela - il rosso e il nero.


Se la Chiesa dei vescovi non ama Chavez, la Chiesa di base è dalla sua parte. Religiose, parroci e missionari mescolati alla gente non sono d’accordo sull’anatema della conferenza episcopale. E nelle prediche della domenica invitano ad approvare il referendum tanto che a Maracaibo, l’arcivescovo Ubaldi Santana, ha censurato l’omelia domenicale di padre Vidal Atencio rimproverandogli di mettere confusione nelle idee dei fedeli. Grandi università private ( e a pagamento ) protestano con i loro studenti; le prime università statali ( gratuite ) scendono in piazza per appoggiare il referendum.

(Domenica 2 dicembre si vota la nuova Costituzione)

domenica 25 novembre 2007

"DOBBIAMO DIRE NO ALLA GUERRA ED ESSERE DURI COME PIETRE" (Aldo Capitini)


 Domenica 23 DICEMBRE 2007


MARCIA PERUGIA ASSISI


Il 23 Dicembre del 1899 entrò nella storia Aldo Capitini.


Noi donne e uomini della "Fucina per la Nonviolenza di Firenze" intendiamo fare memoria della sua testimonianza, attualizzare il suo messaggio originario.


Il 23 DICEMBRE 2007 partiremo da Perugia per arrivare ad Assisi ripercorrendo le strade della prima marcia del 1961.


Sarà una marcia e non una manifestazione “contro” o “a favore”; invitiamo quindi tutte/i quelle/i che vorranno partecipare ad aderire come persone e cittadine/i capaci di assunzione di responsabilità individuale e collettiva, utilizzando uno stile nonviolento.


MEZZI E FINI SONO PER NOI PARIMENTI IMPORTANTI.


Ci piacerebbe far emergere con chiarezza il simbolo della nonviolenza (fucile spezzato) che è diverso dalla bandiera della pace


 


l        Per dire "no alla guerra e essere duri come pietre"


l        Per dire no a un'economia di guerra, alla militarizzazione del sistema industriale e della società.


l        Per promuovere l'idea di un'economia che riporti eguaglianza nell'Umanità, equilibrio tra esseri umani e natura


l        Per rilanciare l'idea di "omnicrazia", del potere di tutti, superando le attuali chiacchiere sulla partecipazione, riproponendo lo spirito e l'esperienza dei "Centri di Orientamento Sociale" (COS), di reale impegno diretto delle cittadine e dei cittadini.


l        Per continuare a difendere i principi della nostra Costituzione che ancora potrebbe promuovere una giusta convivenza


l        Per ribadire, con Lorenzo Milani, che noi nonviolenti "non abbiamo Patria e reclamiamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la nostra Patria, gli altri i nostri stranieri".


l        Scegliamo di finire la marcia nel luogo che ricorda Francesco per la rivoluzionaria "scelta degli ultimi" che questi incarnò.


RITROVO E PARTENZA DAI GIARDINI DEL FRONTONE DI PERUGIA ALLE ORE 9.30 (passaggio dalla stazione FS di Perugia Ponte San Giovanni ore 10.30), ARRIVO ALLA ROCCA DI ASSISI.


Il tragitto è di 27 Km.


In questo percorso proponiamo un incontro a tutti gli interessati il 2 DICEMBRE 2007 a Firenze (orario e luogo da confermare) in cui confrontarci per continuare a costruire questa iniziativa che vuole rilanciare il metodo e l'agire nonviolento in un momento in cui se ne parla tanto, non sempre a proposito.


La Fucina per la Nonviolenza di Firenze


Per adesioni e informazioni Gigi Ontanetti (portavoce della Fucina per la Nonviolenza) tel cell 335 8083559  e-mail  p.u@libero.it


 

"DOBBIAMO DIRE NO ALLA GUERRA ED ESSERE DURI COME PIETRE" (Aldo Capitini)


 Domenica 23 DICEMBRE 2007


MARCIA PERUGIA ASSISI


Il 23 Dicembre del 1899 entrò nella storia Aldo Capitini.


Noi donne e uomini della "Fucina per la Nonviolenza di Firenze" intendiamo fare memoria della sua testimonianza, attualizzare il suo messaggio originario.


Il 23 DICEMBRE 2007 partiremo da Perugia per arrivare ad Assisi ripercorrendo le strade della prima marcia del 1961.


Sarà una marcia e non una manifestazione “contro” o “a favore”; invitiamo quindi tutte/i quelle/i che vorranno partecipare ad aderire come persone e cittadine/i capaci di assunzione di responsabilità individuale e collettiva, utilizzando uno stile nonviolento.


MEZZI E FINI SONO PER NOI PARIMENTI IMPORTANTI.


Ci piacerebbe far emergere con chiarezza il simbolo della nonviolenza (fucile spezzato) che è diverso dalla bandiera della pace


 


l        Per dire "no alla guerra e essere duri come pietre"


l        Per dire no a un'economia di guerra, alla militarizzazione del sistema industriale e della società.


l        Per promuovere l'idea di un'economia che riporti eguaglianza nell'Umanità, equilibrio tra esseri umani e natura


l        Per rilanciare l'idea di "omnicrazia", del potere di tutti, superando le attuali chiacchiere sulla partecipazione, riproponendo lo spirito e l'esperienza dei "Centri di Orientamento Sociale" (COS), di reale impegno diretto delle cittadine e dei cittadini.


l        Per continuare a difendere i principi della nostra Costituzione che ancora potrebbe promuovere una giusta convivenza


l        Per ribadire, con Lorenzo Milani, che noi nonviolenti "non abbiamo Patria e reclamiamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la nostra Patria, gli altri i nostri stranieri".


l        Scegliamo di finire la marcia nel luogo che ricorda Francesco per la rivoluzionaria "scelta degli ultimi" che questi incarnò.


RITROVO E PARTENZA DAI GIARDINI DEL FRONTONE DI PERUGIA ALLE ORE 9.30 (passaggio dalla stazione FS di Perugia Ponte San Giovanni ore 10.30), ARRIVO ALLA ROCCA DI ASSISI.


Il tragitto è di 27 Km.


In questo percorso proponiamo un incontro a tutti gli interessati il 2 DICEMBRE 2007 a Firenze (orario e luogo da confermare) in cui confrontarci per continuare a costruire questa iniziativa che vuole rilanciare il metodo e l'agire nonviolento in un momento in cui se ne parla tanto, non sempre a proposito.


La Fucina per la Nonviolenza di Firenze


Per adesioni e informazioni Gigi Ontanetti (portavoce della Fucina per la Nonviolenza) tel cell 335 8083559  e-mail  p.u@libero.it


 

sabato 24 novembre 2007

La città del fiore

C'era una volta



Una favola raccontata da Enzo e Fuad.


Al calar della notte, dopo una giornata di fatiche, la donna era molto stanca, gli occhi le si chiudevano, le membra erano doloranti. Come il sole, ogni sera, si lascia andare lentamente nelle braccia della notte, così la donna si apprestava a scivolare nel sonno. Aprì un libro e si mise a leggere.

...Il libro che aveva aperto quella sera raccontava storie di bambini stufi della pazzia che sta uccidendo la città.

Mentre gli occhi le si chiudevano, arrivò al punto in cui i bambini, inascoltati, si organizzano e decidono di fare la città a modo loro.


Vedi le illustrazioni.


 

La città del fiore

C'era una volta



Una favola raccontata da Enzo e Fuad.


Al calar della notte, dopo una giornata di fatiche, la donna era molto stanca, gli occhi le si chiudevano, le membra erano doloranti. Come il sole, ogni sera, si lascia andare lentamente nelle braccia della notte, così la donna si apprestava a scivolare nel sonno. Aprì un libro e si mise a leggere.

...Il libro che aveva aperto quella sera raccontava storie di bambini stufi della pazzia che sta uccidendo la città.

Mentre gli occhi le si chiudevano, arrivò al punto in cui i bambini, inascoltati, si organizzano e decidono di fare la città a modo loro.


Vedi le illustrazioni.


 

martedì 20 novembre 2007

Mario Vezzani

Mario Vezzani


Scrive Urbano:


"E’ il professore dei ragazzi del Liceo Gobetti (di Bagno a Ripoli ndr). La prima impressione che ci ha fatto non è stata positiva: ci sembrava una persona noiosa e priva di umorismo, ma con il procedere delle prove ci siamo resi conto che ci sbagliavamo: abbiamo scoperto che ha anche delle qualità positive ..... E' alto e robusto, ha pochi capelli chiari, quasi bianchi. Gli devono proprio piacere i pantaloni di velluto e l'impermeabile, perché caldo o freddo che sia, è sempre vestito così. Parla spesso con la Bianchi, sembra quasi che si confidi e .. chissà..... se, sotto sotto, non ci sia qualche storia ... uhm .. di amicizia! Ti guarda con espressione quasi beffarda e quando parla con i suoi allievi sembra quasi che voglia prenderli in giro, anche se in modo abbastanza bonario. Mentre assiste alle prove di teatro tiene le braccia conserte, sembra essere attento e, nello stesso tempo, sembra concentrato su un’alta cosa o in un altro mondo. In altri momenti tiene le mani dietro la schiena e passeggia per la palestra, avanti e indietro, pensieroso. Che sia nervoso? O preoccupato? Chissà! E’ enigmatico. E’ un uomo colto e un po’ filosofo. (Silvia G.)

Lo scrive una studentessa nel libro che rievoca la messa in scena e la rappresentazione della vicenda di Giordano Bruno realizzata nel quattrocentesimo anniversario del rogo, testo di Mario Vezzani, titolo "Campo dei fiori".
 

Continuo a sfogliare questo volume di 228 pagine, faccio vedere a Paola le foto in carta patinata degli gli abiti di scena creati da due classi del biennio dell'Istituto statale d'arte di Porta Romana, sezione moda e costume, scorro, terza di copertina, la lettera di Paolo Emilio Poesio, guru del teatro italiano, "Caro Vezzani...Viareggio 30 luglio 99", una bella lettera.

Mi distraggo al pensiero di momenti vissuti insieme nella scuola, nel quartiere negli anni sessanta settanta, non sto a farla lunga, ve lo presento con le sue parole mentre sta lavorando alla messa in scena del suo "Campo di fiori", l'anno precedente alla presentazione al pubblico che avverrà nel ridotto del teatro comunale di Firenze.

"Tutti sono in piedi attorno al tavolo: si parla di come fare la mostra alla Pergola...se sarà possibile produrre un video con le numerose riprese fatte da Brilli e dai suoi studenti.

Piero Brilli si occupa di modellistica, lavora nel laboratorio di scenotecnica e spettacolo, come me è alla soglia della pensione, ma il suo lavoro appassionato anima e accresce ancora la professionalità di chi si impegna nelle attività teatrali.

Mentre si valutano le immagini, si avvicina al tavolo Antonia Balbi del laboratorio di scenotecnica: sotto la sua direzione gli studenti hanno realizzato le maschere e il telone sul quale campeggia un sole luminosissimo, simbolo ermetico e platonico, sicuramente fra le cose più belle della scenografia e dei costumi di "Campo di fiori". Ha svolto un' accurata ricostruzione della storia del gruppo teatrale dell 'Istituto d'Arte, dall'87 al 2000. In due fogli densi di caratteri minuti è esposta con chiarezza una quantità rilevante di dati; il primo nome è quello dell'amico e maestro Mario Peca, il suo Gruppo, "Mimesis" ha innovato profondamente il fare teatro a scuola ed è stato fra i promotori di una lunga e fortunata stagione fiorentina ... seguono Scuto, Mancini, Magherini, Palmerani e tanti altri dei quali vorrei parlare a lungo. Vi sono poi i luoghi: il Teatro Romano di Fiesole, il Teatro Greco di Siracusa, il teatro greco di Palazzolo Acreide, di Carlentini, l'anfiteatro di Milis (Oristano) ... naturalmente Rifredi e numerosi teatri di Firenze, della Toscana, delle Marche... infine gli scambi con l'estero ... Se non conoscessi i colleghi ancora impegnati a selezionare le fotografie, e la inesauribile creatività di Scuto rimarrei meravigliato della quantità e della qualità delle esperienze racchiuse nella nota curata dalla collega Balbi.

Sono già passate le due del pomeriggio, il parcheggio che assedia la grande sede dell 'Istituto d'Arte è quasi vuoto ... mentre mi avvio all'uscita lungo i viali alberati, d'improvviso salgono alla memoria immagini, colori, profumi... i versi dell'Agamennone di Eschilo, recitati dai giovani dell'Istituto d'Arte nel meriggio assolato della primavera siciliana, e quelli dell'Antigone di Sofocle, che dopo tanto ingiustificato silenzio tornavano, grazie al Liceo Gobetti e all'amico Incatasciato, a risuonare nel tepore notturno di una verde Estate Fiesolana
."


 Ciao, Mario, palpito azzurro nel cielo di Fiesole, sorriso bonario e battuta arguta nel gruppo dei pari, spirito buono che sentiamo alitare qui intorno a noi, tra il Viale dei bambini e le scuole della montagnola.


Scrive Paola Lucarini

  E' stato per noi un caro amico, dagli anni dell'università all'impegno nella scuola, nel movimento politico; abbiamo fatto nottate e risate con lui, e l'avevamo visto qualche tempo fa quando preparavamo la mostra del Movimento di quartiere, un po' sottotono, già ammalato, ma non lo sapevamo. La cosa più triste è stata non poterlo salutare, non averlo accompagnato alla fine. Non ci è stato permesso.



Enzo ci manda questo documento d'archivio:

2 marzo 1969, domenica mattina assemblea in piazza Isolotto con i disoccupati dell’Amiata

Mario Vezzani: Stamattina è importante che qui si abbia questo incontro di due gruppi di uomini che hanno combattuto contro la repressione che viene dall’alto, contro le gerarchie che vogliono opprimere, che vogliono imporre lo sfruttamento, che vogliono imporre il consenso umano e appunto lo sfruttamento più estremo come risulterà dalle parole di questi operai. Forse ci vorrebbe qualche parola in più per spiegare a questi lavoratori, a questi uomini che combattono – sono attendati alla Lizza a Siena, in una piazza da vari giorni – che cosa è questa Comunità. Questa Comunità è legata alla Sicilia, alle terre dove l’incuria degli uomini produce disastri e alluvioni, è legata ovunque l’uomo è sfruttato dall’uomo. E’ un momento di risveglio, un momento di lotta, di apertura, di una coscienza popolare e democratica. Questa Comunità ha insegnato a molti. Questa chiesa era completamente inserita nel quartiere. Qui gli operai trovavano il luogo di difesa dei loro interessi, trovavano un momento di raccoglimento e di presa di coscienza della loro personalità. Il perché questa chiesa è chiusa: questo devono sapere i lavoratori e i disoccupati dell’Amiata. Ce l’ha detto Florit quando ha detto che le chiese sono costruite con il contributo delle banche e quindi con il contributo dei ricchi. Questa è la ragione. O la chiesa fa l’interesse di chi la paga o diventa sovversiva come sovversivi diventano tutti lavoratori che si battono contro lo sfruttamento. E queste banche, che conoscono bene i nostri amici dell’Amiata, sono quelle che accolgono i capitali e gli enormi profitti che vengono strappati alla montagna dalle Società minerarie le quali operano uno sfruttamento indiscriminato portando via miliardi all’anno e senza investire una lira in questi paesi dove l’emigrazione, la disoccupazione, la miseria infieriscono tutti i giorni. Pensate che lo sfruttamento è tale che per ogni operaio minatore alla SIELE il plusvalore, cioè il profitto netto che viene alla ditta all’anno è di circa quattro milioni. Quindi cento operai, fate il conto, quattrocento milioni di profitto all’anno. E poi quando queste ditte licenziano, quando la produzione lo richiede, quando i loro interessi lo richiedono, lasciano dietro di sé il vuoto, la silicosi, la miseria. Ecco cosa ci sono venuti a dire questi lavoratori. Vogliono il nostro contributo, la nostra solidarietà attiva perché il loro problema, il problema della zona venga risolto. Ed è un problema che interessa tutti perché anche là abbiamo l’oppressione di pochi e la miseria di molti, abbiamo lo sfruttamento: strappare energie, strappare ricchezze e lasciare miseria. Questa è la logica che fa dell’America latina e di tante altre zone del mondo dei deserti di miseria e di desolazione umana. Io mi sono fatto partecipe di questa volontà di incontro e le mie parole non hanno alcun senso a questo punto per cui invito questi amici (a parlare).




Mario Vezzani

Mario Vezzani


Scrive Urbano:


"E’ il professore dei ragazzi del Liceo Gobetti (di Bagno a Ripoli ndr). La prima impressione che ci ha fatto non è stata positiva: ci sembrava una persona noiosa e priva di umorismo, ma con il procedere delle prove ci siamo resi conto che ci sbagliavamo: abbiamo scoperto che ha anche delle qualità positive ..... E' alto e robusto, ha pochi capelli chiari, quasi bianchi. Gli devono proprio piacere i pantaloni di velluto e l'impermeabile, perché caldo o freddo che sia, è sempre vestito così. Parla spesso con la Bianchi, sembra quasi che si confidi e .. chissà..... se, sotto sotto, non ci sia qualche storia ... uhm .. di amicizia! Ti guarda con espressione quasi beffarda e quando parla con i suoi allievi sembra quasi che voglia prenderli in giro, anche se in modo abbastanza bonario. Mentre assiste alle prove di teatro tiene le braccia conserte, sembra essere attento e, nello stesso tempo, sembra concentrato su un’alta cosa o in un altro mondo. In altri momenti tiene le mani dietro la schiena e passeggia per la palestra, avanti e indietro, pensieroso. Che sia nervoso? O preoccupato? Chissà! E’ enigmatico. E’ un uomo colto e un po’ filosofo. (Silvia G.)

Lo scrive una studentessa nel libro che rievoca la messa in scena e la rappresentazione della vicenda di Giordano Bruno realizzata nel quattrocentesimo anniversario del rogo, testo di Mario Vezzani, titolo "Campo dei fiori".
 

Continuo a sfogliare questo volume di 228 pagine, faccio vedere a Paola le foto in carta patinata degli gli abiti di scena creati da due classi del biennio dell'Istituto statale d'arte di Porta Romana, sezione moda e costume, scorro, terza di copertina, la lettera di Paolo Emilio Poesio, guru del teatro italiano, "Caro Vezzani...Viareggio 30 luglio 99", una bella lettera.

Mi distraggo al pensiero di momenti vissuti insieme nella scuola, nel quartiere negli anni sessanta settanta, non sto a farla lunga, ve lo presento con le sue parole mentre sta lavorando alla messa in scena del suo "Campo di fiori", l'anno precedente alla presentazione al pubblico che avverrà nel ridotto del teatro comunale di Firenze.

"Tutti sono in piedi attorno al tavolo: si parla di come fare la mostra alla Pergola...se sarà possibile produrre un video con le numerose riprese fatte da Brilli e dai suoi studenti.

Piero Brilli si occupa di modellistica, lavora nel laboratorio di scenotecnica e spettacolo, come me è alla soglia della pensione, ma il suo lavoro appassionato anima e accresce ancora la professionalità di chi si impegna nelle attività teatrali.

Mentre si valutano le immagini, si avvicina al tavolo Antonia Balbi del laboratorio di scenotecnica: sotto la sua direzione gli studenti hanno realizzato le maschere e il telone sul quale campeggia un sole luminosissimo, simbolo ermetico e platonico, sicuramente fra le cose più belle della scenografia e dei costumi di "Campo di fiori". Ha svolto un' accurata ricostruzione della storia del gruppo teatrale dell 'Istituto d'Arte, dall'87 al 2000. In due fogli densi di caratteri minuti è esposta con chiarezza una quantità rilevante di dati; il primo nome è quello dell'amico e maestro Mario Peca, il suo Gruppo, "Mimesis" ha innovato profondamente il fare teatro a scuola ed è stato fra i promotori di una lunga e fortunata stagione fiorentina ... seguono Scuto, Mancini, Magherini, Palmerani e tanti altri dei quali vorrei parlare a lungo. Vi sono poi i luoghi: il Teatro Romano di Fiesole, il Teatro Greco di Siracusa, il teatro greco di Palazzolo Acreide, di Carlentini, l'anfiteatro di Milis (Oristano) ... naturalmente Rifredi e numerosi teatri di Firenze, della Toscana, delle Marche... infine gli scambi con l'estero ... Se non conoscessi i colleghi ancora impegnati a selezionare le fotografie, e la inesauribile creatività di Scuto rimarrei meravigliato della quantità e della qualità delle esperienze racchiuse nella nota curata dalla collega Balbi.

Sono già passate le due del pomeriggio, il parcheggio che assedia la grande sede dell 'Istituto d'Arte è quasi vuoto ... mentre mi avvio all'uscita lungo i viali alberati, d'improvviso salgono alla memoria immagini, colori, profumi... i versi dell'Agamennone di Eschilo, recitati dai giovani dell'Istituto d'Arte nel meriggio assolato della primavera siciliana, e quelli dell'Antigone di Sofocle, che dopo tanto ingiustificato silenzio tornavano, grazie al Liceo Gobetti e all'amico Incatasciato, a risuonare nel tepore notturno di una verde Estate Fiesolana
."


 Ciao, Mario, palpito azzurro nel cielo di Fiesole, sorriso bonario e battuta arguta nel gruppo dei pari, spirito buono che sentiamo alitare qui intorno a noi, tra il Viale dei bambini e le scuole della montagnola.


Scrive Paola Lucarini

  E' stato per noi un caro amico, dagli anni dell'università all'impegno nella scuola, nel movimento politico; abbiamo fatto nottate e risate con lui, e l'avevamo visto qualche tempo fa quando preparavamo la mostra del Movimento di quartiere, un po' sottotono, già ammalato, ma non lo sapevamo. La cosa più triste è stata non poterlo salutare, non averlo accompagnato alla fine. Non ci è stato permesso.



Enzo ci manda questo documento d'archivio:

2 marzo 1969, domenica mattina assemblea in piazza Isolotto con i disoccupati dell’Amiata

Mario Vezzani: Stamattina è importante che qui si abbia questo incontro di due gruppi di uomini che hanno combattuto contro la repressione che viene dall’alto, contro le gerarchie che vogliono opprimere, che vogliono imporre lo sfruttamento, che vogliono imporre il consenso umano e appunto lo sfruttamento più estremo come risulterà dalle parole di questi operai. Forse ci vorrebbe qualche parola in più per spiegare a questi lavoratori, a questi uomini che combattono – sono attendati alla Lizza a Siena, in una piazza da vari giorni – che cosa è questa Comunità. Questa Comunità è legata alla Sicilia, alle terre dove l’incuria degli uomini produce disastri e alluvioni, è legata ovunque l’uomo è sfruttato dall’uomo. E’ un momento di risveglio, un momento di lotta, di apertura, di una coscienza popolare e democratica. Questa Comunità ha insegnato a molti. Questa chiesa era completamente inserita nel quartiere. Qui gli operai trovavano il luogo di difesa dei loro interessi, trovavano un momento di raccoglimento e di presa di coscienza della loro personalità. Il perché questa chiesa è chiusa: questo devono sapere i lavoratori e i disoccupati dell’Amiata. Ce l’ha detto Florit quando ha detto che le chiese sono costruite con il contributo delle banche e quindi con il contributo dei ricchi. Questa è la ragione. O la chiesa fa l’interesse di chi la paga o diventa sovversiva come sovversivi diventano tutti lavoratori che si battono contro lo sfruttamento. E queste banche, che conoscono bene i nostri amici dell’Amiata, sono quelle che accolgono i capitali e gli enormi profitti che vengono strappati alla montagna dalle Società minerarie le quali operano uno sfruttamento indiscriminato portando via miliardi all’anno e senza investire una lira in questi paesi dove l’emigrazione, la disoccupazione, la miseria infieriscono tutti i giorni. Pensate che lo sfruttamento è tale che per ogni operaio minatore alla SIELE il plusvalore, cioè il profitto netto che viene alla ditta all’anno è di circa quattro milioni. Quindi cento operai, fate il conto, quattrocento milioni di profitto all’anno. E poi quando queste ditte licenziano, quando la produzione lo richiede, quando i loro interessi lo richiedono, lasciano dietro di sé il vuoto, la silicosi, la miseria. Ecco cosa ci sono venuti a dire questi lavoratori. Vogliono il nostro contributo, la nostra solidarietà attiva perché il loro problema, il problema della zona venga risolto. Ed è un problema che interessa tutti perché anche là abbiamo l’oppressione di pochi e la miseria di molti, abbiamo lo sfruttamento: strappare energie, strappare ricchezze e lasciare miseria. Questa è la logica che fa dell’America latina e di tante altre zone del mondo dei deserti di miseria e di desolazione umana. Io mi sono fatto partecipe di questa volontà di incontro e le mie parole non hanno alcun senso a questo punto per cui invito questi amici (a parlare).




venerdì 16 novembre 2007

Thank you from Italy



Shangai 2007


Read the NY Times article here.  "This isn't a free-speech issue," said Jan Martel, president of the United States Bridge Federation, the nonprofit group that selects teams for international tournaments. "There isn't any question that private organizations can control the speech of people who represent them."  And hers aren't the worst of the comments.



You can contact the US Bridge Federation on their "contact us" page.  Tell them to join the world, and cease disciplining the team.



Debra Sweet,

Director, The World Can't Wait - Drive Out the Bush Regime


By trying to address these issues in a nonviolent, nonthreatening and lighthearted manner,” the French team wrote in by e-mail to the federation’s board and others, “you were doing only what women of the world have always tried to do when opposing the folly of men who have lost their perspective of reality.”


Ms. Rosenberg said the team members intended the sign as a personal statement that demonstrated American values and noted that it was held up at the same time some team members were singing along to “The Star-Spangled Banner” and waving small American flags.


Freedom to express dissent against our leaders has traditionally been a core American value,” she wrote by e-mail. “Unfortunately, the Bush brand of patriotism, where criticizing Bush means you are a traitor, seems to have penetrated a significant minority of U.S. bridge players.”





Sylicon Valley 2007


I do remember me that in my youth...


 

Mexico 1968


 

Thank you from Italy



Shangai 2007


Read the NY Times article here.  "This isn't a free-speech issue," said Jan Martel, president of the United States Bridge Federation, the nonprofit group that selects teams for international tournaments. "There isn't any question that private organizations can control the speech of people who represent them."  And hers aren't the worst of the comments.



You can contact the US Bridge Federation on their "contact us" page.  Tell them to join the world, and cease disciplining the team.



Debra Sweet,

Director, The World Can't Wait - Drive Out the Bush Regime


By trying to address these issues in a nonviolent, nonthreatening and lighthearted manner,” the French team wrote in by e-mail to the federation’s board and others, “you were doing only what women of the world have always tried to do when opposing the folly of men who have lost their perspective of reality.”


Ms. Rosenberg said the team members intended the sign as a personal statement that demonstrated American values and noted that it was held up at the same time some team members were singing along to “The Star-Spangled Banner” and waving small American flags.


Freedom to express dissent against our leaders has traditionally been a core American value,” she wrote by e-mail. “Unfortunately, the Bush brand of patriotism, where criticizing Bush means you are a traitor, seems to have penetrated a significant minority of U.S. bridge players.”





Sylicon Valley 2007


I do remember me that in my youth...


 

Mexico 1968


 

La Catena di San Libero


Venerdì, 16 novembre 2007

La Catena di San Libero - 19 novembre 2007 n. 356

E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era "un giovane promettente" ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.


Così, fece domanda per un posto di parroco nel quartiere più miserabile di Catania, al Pigno. Lo accontentarono rapidamente: non c'erano rivali. Lasciò il palazzo del vescovo, e andò a vivere lì: benedicendo, consigliando, aiutando, difendendo la gente – un prete. Questo per quarant'anni. Poi è morto. Il vescovo ha mandato le condoglianze, sul giornale locale è uscito un trafiletto. La gente del Pigno ha pianto. Tutto qui.


Io, quando l'ho saputo, ho pensato d'istinto al segretario del Pci del mio paese, Tindaro La Rosa. Anche lui, giovane avvocato, aveva piantato tutto per andarsene a stare in mezzo ai contadini. Anche lui, quarant'anni di lotte e fatiche in mezzo ai poveri; uno di loro. Anche lui, come Concetto Greco, era un uomo colto, un intellettuale (padre Greco è stato uno dei primi lettori della Catena. Seguiva gli avvenimenti del mondo; scriveva su internet, la sera); sapeva improvvisare brindisi in rima, citare con proprietà Marx o Croce. Ma questo eccezionalmente, come riandando un attimo - e non senza rimpianto - al mondo da cui era volontariamente uscito. Anche lui, dalla vita, ha avuto un premio solo: i proletari piangevano, al suo funerale. Come per padre Greco, come per i Licausi o i Torres, per tutti quei poveri maestri che a un certo punto hanno deciso di mettere la loro vita là dove mettevano le loro parole.


L'ultima predica di padre Greco


Do' Vangelu secunnu Luca


Capitàu 'n sabutu ca Gesù ava

trasutu na casa di unu de' capi raisi de farisei ppi mangiari

e a gente stava ddà a taliarlu.

Virennu comu li 'nvitati s'affuddavunu a pigghiarisi i megghiu posti,

ci stampau na lizioni:

"Quannu si 'mmitatu na 'n spunsaliziu da corcarunu, non t'assittari 'o

primu postu,

pirchì po' capitari ca arriva unu cchiù 'mpurtanti di tia

e chiddu ca v'invitau veni a diriti: susiti, ca ddocu s'assittari st'amicu me.

Allura ti finisci d'assittariti all'ultimu postu, cu' tantu di mala cumparsa.

'Nveci, quannu sì mmitatu, si t'assetti all'ultimu postu

vinennu u patruni 'i casa ti dici: unni ti 'o mittisti. veni cchiù avanti.

Accussì fai na bedda cumparsa davanti a tutti e 'mmitati.

Pirchì cuegghiè si senti cacocciula, finisci murtificatu,

e cu s'incala, agghiorna cchiù 'mpurtanti".

Poi ci rissi o patruni i casa:

"Quannu ammiti qualcunu a mangiari ni tia,

no ammitari i to' amici, o i to frati, o i to' parenti, e mancu genti ricca,

picchì chissi si levunu l'obbligu ammitannuti macari iddi.

O cuntrariu: quannu fai 'n fistinu, ammita puvireddi, storpi, zoppi e cechi,

accussi si cuntentu di non aspittariti nenti di nuddu.

'gn'iornu appoi ricivi 'n ringraziamentu ranni

quannu t'assetti cu tutti l'autri galantomini no' jornu da risurrezioni".


Si dici: Parola do Signuri.


E' sul blog di Riccardo Orioles


La Catena di San Libero


Venerdì, 16 novembre 2007

La Catena di San Libero - 19 novembre 2007 n. 356

E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era "un giovane promettente" ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.


Così, fece domanda per un posto di parroco nel quartiere più miserabile di Catania, al Pigno. Lo accontentarono rapidamente: non c'erano rivali. Lasciò il palazzo del vescovo, e andò a vivere lì: benedicendo, consigliando, aiutando, difendendo la gente – un prete. Questo per quarant'anni. Poi è morto. Il vescovo ha mandato le condoglianze, sul giornale locale è uscito un trafiletto. La gente del Pigno ha pianto. Tutto qui.


Io, quando l'ho saputo, ho pensato d'istinto al segretario del Pci del mio paese, Tindaro La Rosa. Anche lui, giovane avvocato, aveva piantato tutto per andarsene a stare in mezzo ai contadini. Anche lui, quarant'anni di lotte e fatiche in mezzo ai poveri; uno di loro. Anche lui, come Concetto Greco, era un uomo colto, un intellettuale (padre Greco è stato uno dei primi lettori della Catena. Seguiva gli avvenimenti del mondo; scriveva su internet, la sera); sapeva improvvisare brindisi in rima, citare con proprietà Marx o Croce. Ma questo eccezionalmente, come riandando un attimo - e non senza rimpianto - al mondo da cui era volontariamente uscito. Anche lui, dalla vita, ha avuto un premio solo: i proletari piangevano, al suo funerale. Come per padre Greco, come per i Licausi o i Torres, per tutti quei poveri maestri che a un certo punto hanno deciso di mettere la loro vita là dove mettevano le loro parole.


L'ultima predica di padre Greco


Do' Vangelu secunnu Luca


Capitàu 'n sabutu ca Gesù ava

trasutu na casa di unu de' capi raisi de farisei ppi mangiari

e a gente stava ddà a taliarlu.

Virennu comu li 'nvitati s'affuddavunu a pigghiarisi i megghiu posti,

ci stampau na lizioni:

"Quannu si 'mmitatu na 'n spunsaliziu da corcarunu, non t'assittari 'o

primu postu,

pirchì po' capitari ca arriva unu cchiù 'mpurtanti di tia

e chiddu ca v'invitau veni a diriti: susiti, ca ddocu s'assittari st'amicu me.

Allura ti finisci d'assittariti all'ultimu postu, cu' tantu di mala cumparsa.

'Nveci, quannu sì mmitatu, si t'assetti all'ultimu postu

vinennu u patruni 'i casa ti dici: unni ti 'o mittisti. veni cchiù avanti.

Accussì fai na bedda cumparsa davanti a tutti e 'mmitati.

Pirchì cuegghiè si senti cacocciula, finisci murtificatu,

e cu s'incala, agghiorna cchiù 'mpurtanti".

Poi ci rissi o patruni i casa:

"Quannu ammiti qualcunu a mangiari ni tia,

no ammitari i to' amici, o i to frati, o i to' parenti, e mancu genti ricca,

picchì chissi si levunu l'obbligu ammitannuti macari iddi.

O cuntrariu: quannu fai 'n fistinu, ammita puvireddi, storpi, zoppi e cechi,

accussi si cuntentu di non aspittariti nenti di nuddu.

'gn'iornu appoi ricivi 'n ringraziamentu ranni

quannu t'assetti cu tutti l'autri galantomini no' jornu da risurrezioni".


Si dici: Parola do Signuri.


E' sul blog di Riccardo Orioles


mercoledì 14 novembre 2007


UNA LUCE NEL BUIO: LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE  



Dovrebbe essere ormai vicino alla conclusione il tragico caso di Eluana Englaro grazie a una lucida, argomentata sentenza della Cassazione (n. 21748-07 - Prima sezione civile, Presidente Maria Gabriella Luccioli, estensore Alberto Giusti). Come abbiamo commentato “a caldo”, la sentenza si segnala non solo perché dovrebbe finalmente far cessare l'incredibile accanimento medico-giudiziario, protrattosi oltre quindici anni, nei confronti dell'infelice Eluana ma anche perché afferma in modo netto e con logica ineccepibile alcuni importanti principi di diritto in materia di decisioni di fine vita.

Non ultimo quello della validità - anche in mancanza dell'attesa legge - delle direttive anticipate e quello dell'efficacia quanto meno interpretativa della Convenzione internazionale di Oviedo che le riconosce. Altrettanto importante è l'aver affermato che al contrario di quanto sostengono le gerarchie cattoliche i trattamenti cosiddetti di sostegno vitale (e cioè l'alimentazione, l'idratazione e la ventilazione forzata) sono veri e propri atti medici, che pertanto rientrano nel divieto di accanimento terapeutico e possono essere – al pari degli altri trattamenti – rifiutati dall'interessato.

 

Il coraggio della legalità

Una sentenza che si limita ad applicare in modo logico e corretto la legge, ma che si può quasi definire una rarità nel clima di soggezione politica e culturale ai diktat, sempre più arroganti, delle gerarchie vaticane sui temi eticamente sensibili e, in particolare, su tutto quanto riguarda le scelte di fine vita. Per avere un'idea di questa “rinuncia della politica” può bastare questa citazione: “Decisi di non partecipare più alle votazioni e ne diedi notizia al Presidente del Senato”. (...) “Ma naturalmente, qualora fossero in ballo questioni di natura etica che attengano alla mia coscienza di appartenente alla Chiesa Cattolica e di suddito del Vescovo di Roma, io voterei perché «salus coscientiarium, defensio juris naturalis et christianae societatis, suprema lex esto»”. Chi ha scritto queste frasi in una lettera al Corriere il 9 novembre 2007 è un certo Francesco Cossiga, uno che è stato presidente della Repubblica Italiana e come tale ha giurato fedeltà alla nostra Costituzione, “suprema lex” dello Stato Italiano, e per questo è poi diventato anche senatore a vita. E adesso apprendiamo con raccapriccio che il Cossiga non era (non si sentiva) il “primo cittadino” dello Stato italiano ma il “primo suddito” del vescovo di Roma; e che per lui la lex suprema non era (non è) la nostra Costituzione, come noi ingenuamente pensavamo, ma il breviario della Chiesa cattolica.

Ecco perché si è costretti a scomodare gli aggettivi “coraggiosa”, “rivoluzionaria”, per questa sentenza che non a caso è stata attaccata in modo pesante dalle gerarchie vaticane. Non a caso l'Osservatore Romano ha parlato di "relativismo dei valori", che risulta "inaccettabile soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita". Addirittura, secondo il giornale del Papa, "nel vuoto legislativo, una tale posizione significa orientare fatalmente il legislatore verso l'eutanasia". Come sempre il Vaticano fa del terrorismo, visto che per questo bisognerebbe passare sui cadaveri dei Cossiga e dei Rutelli, per non parlare delle Binetti, dei Fioroni e dei cattofascisti alla Storace. Ma c'è di più, perché "introdurre il concetto di pluralismo dei valori significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili". "Attribuire a ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza" (cosa che la Cassazione, per la verità, non ha neppure detto) avrebbe infatti "delle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico". 

Ben diverso, invece, il commento di Stefano Rodotà (vedi l'intervista rilasciata a “Resistenza laica”), secondo il quale i giudici “sono partiti dai principi” come quello della “libertà di cura”, della “tutela del diritto alla salute”, della “illegittimità di trattamenti medici contrari al rispetto della persona umana fissato dall'art. 32 della Costituzione”. Così facendo la Cassazione “ha reso esplicita la trama costituzionale che, come ben si sa, in queste materie, è oggetto di applicazione diretta ai rapporti tra privati. In ipotesi come queste non c’è bisogno dell’intermediazione del legislatore”.

 

Il percorso logico

E infatti è proprio dalla Costituzione, da quella lex suprema spesso ignorata, che ha preso le mosse la sentenza: stabilendo, innanzitutto, che esiste un diritto, consacrato dall'articolo 32, all'autodeterminazione delle cure. Cardine di questo diritto è l'informazione: il paziente deve essere informato, ad opera del medico, del tipo di cure praticate e della loro efficacia in termini di rapporto costi-benefici. E le cure possono essere intraprese solo “dopo” che il paziente vi abbia dato il suo “consenso informato”, che costituisce quindi l'unica legittimazione del trattamento sanitario. Anche nel codice di deontologia medica del 2006 – ricorda la Corte - si ribadisce che «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente».

Il consenso informato “ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.

Ciò è conforme al principio personalistico che secondo la Corte anima la nostra Costituzione, la quale “vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive”.

Non siamo, cioè, nello Stato etico che volevano i totalitaristi fascisti e ora vorrebbero i totalitaristi cattolici: la società e le sue leggi non possono trasformare in un “dovere” il “diritto” alla vita e alla salute della persona.

 

Niente limiti all'autodeterminazione

Deve perciò escludersi – ha ribadito la Corte - che il diritto all'autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite “allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”.

“Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.” Non esiste, in altri termini, un “dovere di curarsi” come principio di ordine pubblico. Il medico potrà, semmai, provare a “persuadere”, ma non potrà mai “imporre”.

Anche il codice della sanità pubblica francese, nel testo modificato dallacosiddetta Legge Leonetti (approvata in Francia sull'onda dell'emozione suscitata dal tragico caso di Vincent Humbert, vedi: www.liberauscita.it/online/wpcontent/uploads/2007/11/legge_leonetti.pdf) stabilisce che “quando una persona in fase avanzata o terminale di una affezione grave e incurabile, qualunque ne sia la causa, decide di limitare o arrestare ogni trattamento, il medico rispetta la sua volontà dopo averlo informato delle conseguenze della sua scelta”.  

 

Le direttive anticipate e il caso Englaro

Ovviamente le cose cambiano se l'interessato non è in grado di manifestare la propria volontà a causa di uno stato di incapacità totale, a meno che, dice la Corte – facendo una prima, importante ammissione implicita della validità del testamento biologico - “non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza”.

Ma questo non è il caso di Eluana Englaro, la quale “non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento”, ed ora è affidata, per la sopravvivenza fisica, all'alimentazione e idratazione artificiali somministratele attraverso un sondino nasograstrico.

Per le sue condizioni, Eluana è stata interdetta ed il padre è stato nominato suo legale rappresentante. Ed è grazie al rappresentante, afferma la Corte, che si potrà ricreare il necessario dualismo medico-paziente in ordine all'accettazione e alla praticabilità delle cure. Il diritto di accettare o respingere i trattamenti sanitari non può essere infatti limitato, se non si vuole calpestare il principio costituzionale di eguaglianza, alle persone in grado di intendere e di volere, ma deve essere esteso agli incapaci, che lo esercitano - in mancanza di direttive anticipate – attraverso il proprio rappresentante.

 

La Convenzione di Oviedo

Questo potere è espressamente previsto dalla nostra legislazione e la stessa Convenzione di Oviedo afferma che “quando una persona maggiore di età non possiede – a causa di un handicap mentale, di una malattia o di altro motivo similare (ad esempio, uno stato comatoso), la capacità di dare il consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l'autorizzazione del suo rappresentante”. In ogni caso, “nessun intervento può essere effettuato su di una persona incapace se non per il suo beneficio diretto”.     

E secondo la Corte, è possibile invocare le prescrizioni della Convenzione, anche se questa non ha ricevuto ancora la ratifica dallo Stato italiano sebbene una legge del Parlamento l'abbia autorizzata.   E' chiaro che la Convenzione, fino alla ratifica, dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzata (come si evince anche dalle sentenze della Corte costituzionale) nell'interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad essa conforme. I principi della Convenzione, in altri termini, “fanno già oggi parte del sistema e da essi non si può prescindere”.

 

Il limite dei poteri del rappresentante

Questo non vuol dire – tiene a puntualizzare la Corte – che il rappresentante abbia un potere indiscriminato di esprimere i propri intendimenti in ordine ai trattamenti sanitari dell'incapace. 

Il suo intervento incontra infatti dei limiti, connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che la libertà di rifiutare le cure "presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive".

Proprio in base al carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace non compete al tutore, investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è infatti sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzi tutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”.

 

La sentenza del tribunale tedesco

Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l'idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte. E qui la Corte fa un richiamo a numerose sentenze di giurisdizioni estere, tra le quali ci sembra importante citare la sentenza 17 marzo 2003, con la quale il Bundesgerichtshof afferma che se un paziente non è capace di prestare il consenso e la sua malattia ha iniziato un decorso mortale irreversibile, devono essere evitate misure atte a prolungargli la vita o a mantenerlo in vita qualora tali cure siano contrarie alla sua volontà espressa in precedenza sotto forma di cosiddetta “disposizione del paziente”: e ciò in considerazione del fatto che la dignità dell'essere umano impone di rispettare il suo diritto di autodeterminarsi, esercitato in situazione di capacità di esprimere il suo consenso, anche nel momento in cui questi non è più in grado di prendere decisioni consapevoli. E se non fosse possibile accertare tale chiara volontà del paziente, si può valutare l'ammissibilità di tali misure secondo la sua presunta volontà, la quale deve, quindi, essere identificata, di volta in volta, anche sulla base delle decisioni del paziente stesso in merito alla sua vita, ai suoi valori e alle sue convinzioni”.

 

La condizione del malato in S.V.P.

Anche su questo punto la posizione della Corte è estremamente chiara. Da un lato afferma che la persona in stato vegetativo permanente “è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente”.

Ma - “accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno”.

Secondo la Cassazione, uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest'ultima decisione.

All'individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, di non voler accettare l'idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l'ordinamento dà quindi la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale. Il quale, nell'esprimere quella voce, deve però sottostare a precisi limiti.

 

Conta la volontà del rappresentato e non quella del rappresentante

La ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza - ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell'integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza - assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all'identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.

Tirando le somme: “in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell'autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza - proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità - si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita”.

 

Le misure di “sostegno vitale” sono vere e proprie terapie

“Non v' è dubbio infatti, secondo la Corte, che “l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati implicanti procedure tecnologiche. Tale qualificazione è convalidata dalla comunità scientifica internazionale (si veda nel sito www.liberauscita.it il documento dei medici specialisti di tali trattamenti); si allinea, infine, agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, la quale ricomprende il prelievo ematico - anch'esso "pratica medica di ordinaria amministrazione" - tra le misure di "restrizione della libertà personale quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva perché la persona sottoposta all'esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo". 

Un'ultima precisazione riguarda i poteri/doveri del giudice: non spetta a lui ordinare ai medici di “staccare la spina”, ma controllare la legittimità della scelta del rappresentante legale ed eventualmente autorizzarla.

 

Il principio di diritto

Sulla base di queste considerazioni la Corte ha stabilito il seguente principio di diritto al quale dovrà adeguarsi la decisione del giudice del rinvio (un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano):

“Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificia1mente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti:

(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno;

(b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.

Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.

 

Conclusioni

Come risulta evidente dalle ampie citazioni che ne abbiamo fatto, la sentenza ha risolto con grande equilibrio la problematica relativa alle decisioni di fine vita nei confronti di una persona che si trovi in uno stato vegetativo permanente. E siccome i paletti posti nei confronti della interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (le condizioni di cui ai punti a e b) sono estremamente scrupolosi, non condividiamo affatto il timore – espresso dalla nostra vice presidente Maria Di Chio in un commento peraltro interessante, pubblicato nel sito dell’associazione- che la sentenza si presti ad essere interpretata “in modo più largo e grossolano” e quindi ad offrire “la possibilità di intervenire su soggetti in SV per interromperne l’alimentazione artificiale”.

Avremmo, semmai, il timore contrario, perché nel momento in cui subordina l'interruzione del trattamento non solo alla verifica di una precedente volontà in tal senso dell'interessato ma anche all'accertamento della irreversibilità dello stato vegetativo permanente la Corte entra indirettamente in contraddizione (come rilevato dalla stessa Di Chio) con le precedenti affermazioni, contenute nella sentenza, che il consenso informato è l’unico fondamento della legittimità dell’atto medico. Ma riteniamo si tratti di una contraddizione solo apparente, determinata dal fatto che la Corte, avendo ammesso una certa elasticità nel giudizio che dovrà essere dato circa la volontà di Eluana di interrompere le terapie (ricostruibile in forma anche inespressa, “attraverso i propri convincimenti”), ha voluto cautelarsi dalle accuse che sicuramente le sarebbero state rivolte dai tanti “defensores juris naturalis et christianae societatis” in circolazione. 

Torneremo su questo punto tra poco. Intanto vogliamo però ribadire che qualche marginale perplessità non toglie nulla al grande valore della sentenza, che può essere considerata una pietra miliare lungo il difficile cammino del sistema giuridico verso un assetto equilibrato della materia riguardante le scelte di fine vita, per i principi che contiene e che vanno bene al di là del caso su cui si è trovata a giudicare: perché riafferma i valori della dignità della vita e dell'autonomia della persona di fronte a imposizioni dello stato, della società, delle religioni, dei giudici, dei medici; perché ribadisce che “la salute dell'individuo non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva” e che il rapporto medico-paziente deve essere necessariamente un rapporto dualistico, all'interno del quale, se c'è contrasto, la volontà che deve prevalere è quella del paziente e non quella del medico, quali ne siano le conseguenze (con ciò risolvendo in senso positivo casi come quello Welby-Riccio); perché afferma che nello stato di incapacità occorre fare riferimento alla volontà precedentemente espressa dal paziente (con ciò dando indiretto riconoscimento legale al testamento biologico); perché, infine, riconosce la validità nel nostro ordinamento, sia pure al momento solo ai fini interpretativi, della Convenzione di Oviedo. 

 

Che fare

Come bene ha detto il nostro socio onorario Veronesi, con questa sentenza si ripete nel nostro Paese “una situazione capovolta, in cui sono i giudici a sopperire alla politica. Non è la prima volta che la nostra magistratura dimostra una fedeltà ai principi della Costituzione e un'apertura ai nuovi valori e bisogni dei cittadini, che purtroppo non sa esprimere la classe politica”.

Purtroppo la citazione che abbiamo fatto all'inizio dimostra quanto sia problematico immaginare che questa classe politica possa arrivare a scelte che siano sia pure in minima contraddizione con i valori – presentati a priori come “non negoziabili” – che esprimono le gerarchie vaticane, che non lasciano passare un giorno senza esprimere la loro feroce opposizione non solo all'eutanasia ma pure al testamento biologico. E se di quest'ultimo volessero sentir parlare, sarebbe in una forma svirilizzata, in quanto: a) non potrebbe contenere la contrarietà alle misure di idratazione, alimentazione e ventilazione forzata le quali, al contrario di quanto affermano i medici, per le gerarchie cattoliche (che naturalmente sanno di medicina più dei medici), non sono atti medici ma “pratiche naturali”; b) si dovrebbe lasciare ai medici l'ultima parola nel senso che questi, secondo scienza e coscienza, avrebbero il potere/dovere di applicare o no le indicazioni contenute nel testamento. Che si stia andando o comunque si possa andare in Senato verso una soluzione di questo tipo lo hanno fatto capire gli stessi rappresentanti del centro sinistra, come si può leggere dall'intervista che pubblichiamo. Un vero capolavoro - se venisse fuori una legge del genere - di ipocrisia gesuitica.

Queste conseguenze sono scontate se i laici - o i sedicenti laici, a questo punto bisogna dire - pensano di poter trattare sui temi etici (come purtroppo li ha invitati a fare lo stesso Presidente Napolitano) con persone od enti che si dichiarano portatori di verità assolute e valori “non negoziabili”. I risultati a questo punto sono due: o non si fa nessuna legge o si fa una legge come vorrebbero loro. E quindi si finisce sempre con dargli ragione. E' una fortuna che quando si dovette discutere la legge sul divorzio ci fosse gente in Parlamento che non stava troppo a negoziare con chi era portatore di un valore assoluto come l'indissolubilità del sacramento matrimoniale, altrimenti staremmo ancora a combattere con la Sacra Rota.

Laicismo significa, invece, capire che ci sono persone che possono avere valori diversi, e cercare di trovare un contemperamento normativo che assicuri un'equa dignità e un giusto riconoscimento a questi valori. Come fa ad esempio la Cassazione, nella sentenza che abbiamo esaminato, quando afferma che “accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza, c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno”. Sottinteso: perché dovremmo rispettare la volontà del primo e non anche quella del secondo? E' sempre della loro vita, che si tratta.

Allo stesso modo, accanto a chi considera un “valore assoluto” e “non negoziabile” l'indissolubilità del matrimonio ed è disposto a rispettare questo dogma anche se il coniuge si è macchiato delle colpe più gravi, dall'abuso di droga a quello dei figli (“perché l'uomo non deve separare ciò che Dio ha unito”) c'è anche chi considera suo diritto mettere fine a un vincolo che può provocare solo dolori. Se il primo vuole rispettare il dogma della religione in cui crede, affar suo, ma perché dovrebbe obbligare a rispettarlo anche il secondo – che non crede, oppure crede diversamente da lui? 

Per il testamento biologico siamo di fronte ancora una volta, come purtroppo sempre in questo paese, al conflitto tra tolleranza/intolleranza, pluralismo/assolutismo. Non solo la Chiesa cattolica vuole (del tutto giustamente) che siano rispettati i suoi valori ma pretende di imporli a tutti: non solamente ai suoi seguaci e militanti, ma a tutto il resto del mondo; e di imporli non attraverso la persuasione e la predicazione ma mediante una legge dello Stato, ancora e sempre suo braccio secolare.

Il vero credente è convinto che la vita sia un dono di Dio e non sia lecito in nessun modo abbreviarla? Benissimo, è nel suo pieno diritto. Ma perché dovrebbe voler vietare a chi in Dio non crede affatto o a chi, pur credendovi, ritiene che in alcune circostanze la vita possa essere non un dono ma una terribile condanna, di abbreviarla se ritiene di non poterla più sopportare?

Inutile porre queste domande agli zelanti “sudditi del vescovo di Roma”, quelli che considerano il suo breviario “suprema lex” e si alzano con la febbre per andare a votare contro qualunque progetto possa minimamente discostarsi dai diktat di oltre Tevere. 

E quindi, visto che se ne discute inutilmente da più di un anno, archiviamo ormai, in questo clima politico, ogni residua speranza di vedere approvata anche in Italia una legge sul testamento biologico che non sia un orribile pateracchio.

Certo, come ha detto Veronesi, una legge che stabilizzi le volontà del cittadino e le renda vincolanti sarebbe auspicabile, ma meglio nessuna legge che una cattiva legge. Tanto più ora che la Cassazione ha affermato in modo preciso la validità delle direttive anticipate e l'efficacia nel nostro ordinamento (sia pure ai fini interpretativi) della Convenzione di Oviedo. E non ci preoccupa – relativamente allo stato vegetativo permanente – la condizione della irreversibilità posta dalla sentenza, in quanto la riteniamo limitata alla fattispecie oggetto di giudizio, e cioè a situazioni, come quella di Eluana, in cui manca una direttiva esplicita e formale del paziente. In ogni caso, come suggerisce giustamente Di Chio, se vogliamo garantirci dal prolungamento ad libitum delle cure in tali condizioni non terminali, dovremo inserire molte e dettagliate specificazioni nel nostro formulario delle direttive anticipate.

Accantonate dunque - salvo miracoli in cui da laici però poco crediamo - le aspettative circa una prossima legalizzazione del testamento biologico, l'alternativa che oggi si apre davanti ad associazioni come la nostra, dopo la sentenza della Cassazione sul caso Englaro, è quella di adoperarsi il più possibile per sensibilizzare l'opinione pubblica e incentivare le persone a sottoscrivere il testamento, ormai considerato valido nel nostro Paese in base alla Convenzione di Oviedo e come logica estensione del consenso informato alle cure. Sapendo – citiamo ancora Veronesi - di essere giuridicamente protetti dalla Costituzione e da una Magistratura (ricordiamo anche il proscioglimento di Mario Riccio ad opera del Gup della Capitale) che dimostra di avere la forza di difenderla. Per usare una frase purtroppo negli ultimi tempi abusata da uomini politici dai comportamenti tutt'altro che cristallini, è bello sapere che ci sono dei giudici a Roma.

Giancarlo Fornari, Presidente di Libera uscita

(Il testo originale della sentenza è pubblicato nel sito di LiberaUscita, rubrica “Documenti”).

 

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