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giovedì 22 marzo 2012

Solidarietà sociale


Assemblea di domenica 25 marzo ore 10,30
Nella accezione corrente, SOLIDARIETA’ sta ad indicare un atteggiamento di benevolenza e comprensione, ma soprattutto di sforzo attivo e gratuito, atto a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che ha bisogno di un aiuto.
Si parla di "solidarietà sociale" in riferimento ad attività svolte dalle istituzioni o dalle organizzazioni di volontariato per sollevare persone costrette ai margini della società a causa di problemi economici o di altro genere.
Nel tempo dell’individualismo, dell’ognuno per sé, del perseguimento dell’interesse personale, ha ancora senso parlare di solidarietà ? E’ una utopia oppure una pratica necessaria al vivere sociale ?
Cercheremo di affrontare questo tema anche con esempi di esperienze concrete, come quella del Fondo di aiuto sociale Essere del quartiere 4, nella assemblea comunitaria di domenica 25 marzo alle ore 10.30 presso la sede della comunità dell'isolotto, in via degli aceri 1.

mercoledì 21 marzo 2012

Koinonia scrive da Pistoia


Pistoia, 20 marzo 2012
Cari amici,
perché questo Forum 300 a ridosso del 299? Semplicemente per dare notizia di un evento in area fiorentina, che però può avere risonanza più ampia ed incidenza particolare sul nostro cammino. Si tratta della presentazione del libro “Il processo dell’Isolotto” a cui partecipa anche Giancarla Codrignani.
Prima ancora di sapere di tutto questo, in Koinonia di aprile abbiamo segnalato il libro nell’ambito della Dichiarazione del P.Balducci sulla vicenda Isolotto, così come vi figura un articolo di Giancarla che ripropone nell’oggi le problematiche di allora. Questo per dire che non siamo alla pura rievocazione e ricostruzione di eventi superati, ma abbiamo a che fare con sangue che scorre ancora nelle nostre vene!
Il paragrafo qui riportato del saggio introduttivo di Enzo Mazzi ci fa capire dal vivo come il “processo conciliare” che viene da lontano è ancora in atto ed è messe che attende operai: qualcosa che rischia di venire rimosso come pericoloso, per contentarsi di costruire solo “in positivo” al di fuori di conflitti o di lasciare ad altri la lotta che essi comportano.
Sembra in effetti che la nostra chiesa abbia cercato di disinnescare ogni istanza di “rivoluzione copernicana” per ammantarsi con le varie insegne di novità da essa prodotte: che si sia appropriata di tutti gli aspetti secondari e discutibili delle esperienze innovative (soprattutto nelle modalità celebrative), per riproporsi come blocco di potere di sempre. E’ ciò che genera la strana situazione attuale, per cui ad un neo-trionfalismo interno fa riscontro una zona grigia di rottura o di percorso parallelo alternativo: se c’è “disagio senza conflitto”, infatti, si arriva alla omologazione, o alla estraneità o alla incomunicabilità. Riscoprire il conflitto come processo dialettico vitale non può fare che bene, ma deve trovarci pronti a condurlo e sostenerlo.
Rimanendo per ora al testo riportato di Enzo Mazzi c’è da dire che ci aiuta anche a fare memoria di mons. Oscar Romero il 24 marzo, giorno ufficialmente promosso a “Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri” (a proposito di disinnescamento e di omologazione!). Ma come si può vedere, egli valorizza insolitamente anche il ruolo della teologia e dei teologi nella conduzione di questo “processo conciliare” aperto, ciò che forse manca al momento attuale come riflessione innescata nel sensus fidei della totalità dei fedeli o dei credenti di ogni tipo. E’ significativo il fatto che il libro che sarà presentato preveda alcune “Testimonianze di teologi”, che evidenziano una dimensione della vicenda non secondaria rispetto ai pur rilevanti elementi istituzionali e giudiziari.
Motivo ed occasione per continuare a riflettere e comunicare tra di noi e con tutti, per arrivare insieme ad avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).


Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 – Pistoia

AD INFORMAZIONE
E RICORDANDO ENZO MAZZI

1 - La Comunità dell’Isolotto e Manifestolibri
Invitano alla presentazione del libro 
Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna

Introduce e coordina
Valerio Gigante  redattore agenzia di stampa ADISTA

INTERVENTI DI
Mario Capanna politico e scrittore
Giancarla Codrignani  docente di letteratura classica, politologa, teologa
Beniamino Deidda  Procuratore Generale della Repubblica di Firenze

Firenze  giovedì 22 marzo 2012  ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26



La memoria del vivere sociale ha una grande vitalità generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione egoistica. E' come la vitalità propria del seme: può restare a lungo apparentemente inattiva, a causa di contingenze storiche che ne impediscono lo sviluppo o la visibilità, ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme piccole e leggerissime che possono essere trasportate lontano dal vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)

Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda del processo alla Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte quasi 1.000 persone, 9 delle quali  vennero incriminate per turbativa di funzione religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza.

Info
Comunità dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze
                                                                                           tel. 055 711362. E-mail comis@videosoft.it, bibliotecadelleoblate@comune.fi.it



2 – Da un testimone del lungo processo conciliare: Enzo Mazzi

La "rivoluzione copernicana" sociale
nella Chiesa cattolica

         Il processo di umanizzazione sociale si è configurato nell'ambito ecclesiale come "rivoluzione copernicana della Chie­sa". Così ha significativamente definito il Concilio Vaticano II un grande teologo conciliare, Dominique Chenu, in quanto pone al centro non più la gerarchia ma il "Popolo di Dio".
         Il Concilio però non è solo il mitico evento che si è aperto in San Pietro l’11 ottobre 1962. È una grave deformazione storiografi­ca e culturale oltre che una scelta politica reazionaria rinchiudere il Concilio nella scatola dell'Assise conciliare. La rivoluzione coperni­cana del Concilio era già in atto come processo dal basso prima che i vescovi di tutto il mondo fossero convocati da papa Giovanni. E dopo che essi furono congedati da Paolo VI il movimento concilia­re continuò, anzi divenne culturalmente egemone nella chiesa. Chi scrive è fra i tanti testimoni diretti di un tale processo conciliare iniziato ben prima del pontificato di papa Giovanni e proseguito ad oggi, con modalità e visibilità diverse, come un fiume che si modella in base ai territori che incontra.
         Nel dopoguerra, mentre dai luoghi del potere proveniva quella ondata antipopolare di contrapposizione e intolleranza che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici, i luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri, crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo alcuni esempi più facilmente decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si trovarono a condividere una "comunità di destino" con operai comunisti. Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia evangelici che li portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a tentare sentieri inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una delle vene del processo conciliare. Un'altra vena, non meno feconda, si apriva nel mantovano, dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il fascismo e poi nell'immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito di convergenza con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali, con i protestanti. "Tromba dello Spirito Santo" lo definì papa Giovanni,  il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno del Concilio. Infine le esperienze pastorali di parrocchie che si svilupparono già dieci anni prima del Concilio specialmente nelle periferie popolari delle città. In Francia furono definite "parrocchie missionarie" e in Italia furono dispregiativamente chiamate "parrocchie rosse" per il loro ideale e spirito comunitario evangelico e senza confini. A Firenze tali esperienze pastorali erano molte: l'Isolotto, Rifredi, la Casella, la Nave a Rovezzano, il Vingone, Calenzano.
         Qui, in questi crogioli periferici di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa s'innesta il pontificato di papa Giovanni che dopo un primo tempo di attesa recepisce e rilancia un tale articolato movimento di rinnovamento di base.
         Ai primi di novembre del 1958, il cardinale Elia Dalla Costa, in quel tempo arcivescovo di Firenze, di ritorno dal Conclave, venne a trovarci all'Isolotto, in una delle visite che ci faceva di frequente in rigoroso incognito. "Abbiamo eletto un papa che vi piacerà" – ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l'altra: "Abbiate fiducia, aspettate e vedrete".
Aspettammo, ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell'incoronazione ci avevano mal disposti verso questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
         Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre 1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del S. Cuore di conferire la laurea honoris causa in scienze politiche a Jacques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio blocca la diffusione di Esperienze Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa che aveva concesso il nulla osta alla pubblicazione. Agli inizi del 1959 viene esiliato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile dello stesso anno il Sant'Uffizio rinnova, con la dichiarata approvazione del papa, la condanna contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro comportamenti "favorivano" il comunismo. Ancora nello stesso anno, il card. Feltin riceve dal card. Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio, l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei preti operai, creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt'ora aperte. Infine Teilhard de Chardin, dopo la morte, viene accusato di eresia e le sue opere sono proibite. Altro che sogni di apertura!
         Il nuovo papa appariva un ostaggio imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci aveva aperta il card. Dalla Costa.
         Il clima che si avvertiva negli ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che, nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
         Lontani com'eravamo dalle stanze e dalle trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali, ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio con cui papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani, card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di Mazzolari e della sua rivista Adesso. Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre del 1958 e soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte più preziose. Carlo Falconi afferma in una pubblicazione su I papi del ventesimo secolo che "molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già in possesso di tutto l'esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia ( ... ) soltanto negli ultimi anni della sua vita". Papa Giovanni attendeva l'ora stabilita dalla Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato nella tela del ragno potesse covare il colpo d'ala capace di liberarlo e di liberare con lui la Chiesa intera?
         La stessa notizia che Giovanni XXIII aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per ribadire i luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, tenutosi nel gennaio 1960, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
         Per concludere, si consolidava sempre più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo venire dal centro o dall'alto. Diveniva sempre più chiaro che l'attuale struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente, ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione totalmente impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo che ci si poteva attendere era una "verniciatura dei sepolcri".
         Del resto noi stessi, nel nostro piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi o delle baraccopoli alla creatività dello Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie inamovibili. Non era solo questione di uomini. Anzi, in radice non era affatto questione di uomini. Erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi, catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini....
         La riforma della Chiesa in senso evangelico poteva venire e veniva di fatto solo dal basso o se si vuole dalla periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la struttura di vita dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciata. A lenti ma decisivi passi era collocata su un nuovo fondamento: la base, i poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai e specialmente il mondo femminile. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado, con termine equivoco, "comunità", e magari "comunità parrocchiali". Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: "comunità di base", cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
         Insomma eravamo "periferie" che si avviavano coscientemente, sempre più coscientemente, a divenire soggetti storici della ineludibile riforma della Chiesa.
         Papa Roncalli che si sentiva inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani dell'onnipotenza curiale, ebbe la genialità di rompere quell'isolamento chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei processi di crescita umana e cristiana che dal basso, dalle periferie, animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo dell'ortodossia e del comunismo, in Turchia, la porta dell'Islam, nella Francia, "paese di missione" animato dal card. Suhard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam) e infine nell'Italia del modernismo e dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano.
         Egli aveva preso coscienza di quanto la Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di "buon pastore" che vuole "evitare di trasformarsi in organizzatore della vita collettiva", come ebbe a dire esplicitamente nel discorso dell'incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo romano, per far tacere i "profeti di sventura" e quindi liberare le esperienze conciliare delle periferie e dare spazio ai "segni dei tempi".
         È emblematico lo scontro durissimo che esplose nell'assise dei vescovi riuniti in San Pietro su alcuni aspetti centrali della riforma conciliare.
         Papa Giovanni a un certo punto s'impose sostenendo le istanze rinnovatrici di vescovi come i cardinali Giacomo Lercaro di Bologna, Frings di Colonia, Liènart di Lilla, Alfrink di Utrecht e sconfessando praticamente lo schieramento dei potentissimi vescovi conservatori. Questi erano organizzati dall'arcivescovo Lefebvre in una vera e propria «compagine tradizionalista» all'interno del Concilio, che si dette anche un nome: «Coetus Internationalis Patrum», con in testa il potente cardinale Ottaviani, composta da 250 prelati fra cui l'arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, il cui obiettivo conclamato era quello di trasformare il Concilio in un evento di semplice colore senza reali aperture, anzi con la conferma del centralismo vaticano, delle rigidezze dogmatiche e di tutte le condanne. Papa Giovanni glielo impedì dando forza ai vescovi che esprimevano lo spirito di profonda trasformazione che animava le periferie della Chiesa.
         Questo era il suo compito: non fare lui stesso la riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella realtà ecclesiale e nei processi di crescita umana e cristiana che animavano la storia. Nell'enciclica Pacem in terris chiamerà tali processi "segni dei tempi" e darà loro precisi connotati: "ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici... ingresso della donna nella vita pubblica ... non più popoli dominatori e popoli dominati..."; ancora altri "segni dei tempi", secondo la Pacem in Terris, l'aprirsi delle coscienze al carattere democratico della vita sociale e politica e all'illiceità ormai della guerra nell'era atomica.
         Nei primi anni del suo pontificato Roncalli si rese dunque conto di essere divenuto ostaggio della curia vaticana. Dal centro egli poteva solo reprimere non fecondare. E concepì il Concilio per rompere il centralismo romano e quindi liberare le esperienze conciliari delle periferie. Non mi stanco di ricordarlo anche per contrastare l'ignoranza di questi elementi storici da parte di molta storiografia ufficiale.
         È stata una scommessa vincente. "Scommessa", perché a quel tempo non era affatto scontato l'esito del Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a folklore; "vincente” perché il processo conciliare contagiò gran parte dei padri convocati in S. Pietro e divenne egemone, in senso culturale, a livello mondiale.
         Ma quella "rivoluzione copernicana" della Chiesa, nata nella base e poi fatta propria dal Concilio e dilagante, fu osteggiata da grandi centri mondiali di potere reazionario che vedevano nel rinnovamento conciliare della Chiesa un ostacolo alla loro strategia reazionaria. In particolare in Italia il movimento conciliare fu com-battuto da quell'intreccio perverso, composto da politica collusa, massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia, che temendo il contagio comunista, tentò di bloccare il processo democratico complessivo ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore.
         La genesi delle comunità cristiane di base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell'intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud costituiscono la manovalanza di azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell'Isolotto, di cui parleremo più diffusamente più avanti.
         La Chiesa conciliare e specialmente le comunità di base dovevano sparire, in Italia e nel mondo, perché doveva essere annullata l'idea stessa di centralità del "Popolo di Dio", distrutto l'ideale medesimo di "Chiesa povera e dei poveri". È per questo che mentre in Italia si crea il terrore attraverso la manovalanza violenta neo-fascista e mafiosa, in America latina le giunte militari massacrano a decine i pastori e i laici impegnati nel creare comunità di base come mons. Oscar Romero, i teologi della liberazione come padre Ignazio Ellacuria e i suoi confratelli dell'Università Centroamericana di San Salvador.
         La personalità, il messaggio e l'uccisione di mons. Romero sono ormai note in tutto il mondo. C'è perfino una causa di beatificazione che giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni. Tempi che arriveranno, perché il potere ecclesiastico ha fame di santi. La mitizzazione/santificazione di soggetti umani che emergono per il loro eroismo crea nella massa sensi di frustrazione morale di fronte a modelli di santità irraggiungibile, genera in tutti noi sensi di colpa, produce personalità insicure, dipendenti e quindi inclini alla etero-direzione e alla ubbidienza. Ecco il motivo profondo della santificazione ufficiale: favorire il dominio. Noi, le formiche, i comuni mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo insignificanti, bisognosi della protezione del potere, come bambini indotti dalla loro insicurezza a gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero d'America servirà a far dimenticare che egli quando era in vita è stato ostacolato, combattuto e ucciso da quegli poteri che poi hanno favorito la sua santificazione. È vero che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El Salvador e di tutta l'America latina già subito dopo l'uccisione. Anche il popolo ha bisogno di santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però presenta anche rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale, un vescovo che si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di liberazione di essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per sgretolare il sistema del dominio oppressivo. Romero santo può significare il riscatto della santità del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i suoi riti potenti, che penetrano fin dentro l'intimo delle coscienze, sradica il simbolo del riscatto dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa oggetto di culto anziché di ispirazione, lo rende strumento di alienazione.
         Meno noti e meno recuperabili per la santificazione sono le centinaia di preti e teologi della liberazione che furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a fianco del popolo e ne favorivano la coscientizzazione.
         Prendiamo ad esempio i sei teologi dell'Università Centroamericana di San Salvador che furono massacrati il 16 novembre 1989 insieme a due donne inservienti. Erano sacerdoti di origine spagnola da molto tempo impegnati in un lavoro di coscientizzazione della gente. Con loro l'Università cattolica di San Salvador era diventata un centro di analisi, di ricerca e di orientamento pratico a cui si ispiravano le realtà sociali e politiche orientate alla giustizia, al dialogo e alla pace e in particolare le comunità di base di tutto il Centroarnerica. Si deve anche a loro la conversione del vescovo Romero, il quale com'è noto era stato eletto arcivescovo di San Salvador per il suo orientamento tradizionalista, vicino all'Opus Dei, ma poi si era avvicinato alle istanze di liberazione popolari e alla teologia della liberazione espressa appunto dai teologi dell'Università Centroamericana. Essi puntavano però ben oltre l'orizzonte regionale. Il loro impegno era di spingere tutta la Compagnia di Gesù e tutta la Chiesa cattolica, a livello mondiale, a fare la scelta dei poveri. Nel luogo dove furono massacrati, ora c'è un giardino di rose rosse. Ma quella mattina del massacro c'erano solo corpi straziati, deturpati, sfigurati e tanto sangue. In quello stesso periodo con l'esplosione di alcune bombe era stata fatta una strage di sindacalisti salvadoregni. Non è un particolare secondario né un caso.
         La teologia della liberazione che essi elaboravano e diffondevano costituisce la versione centroamericana di una teologia incarnata nella storia della liberazione dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi. La parola "teologia" può portare fuori strada perché può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e dottrinale. In realtà si tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla lotta, dalle esperienze pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una teologia che di fondo, non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha ispirato papa Giovanni XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è diffusa in tutto il mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti culturali. Nelle Filippine l'hanno chiamata teologia della lotta. In altre parti dell'Asia teologia contestuale. In Occidente ha più di una caratterizzazione. C'è ad esempio il grande patrimonio di riflessione teologica legata alla prassi della riappropriazione dal basso del Vangelo e della Tradizione della Chiesa e più in genere della cultura e della storia realizzato dalle comunità cristiane di base. Un altro indirizzo non secondario di teologia della liberazione si può ritrovare nella teologia femminista.
         Non è difficile capire quanto la coscientizzazione operata dalla diffusione mondiale di questa teologia incarnata nella storia della liberazione sia stata e sia invisa ai poteri del dominio mondiale. Se la croce avesse cessato di essere strumento, e quale potente strumento, di rassegnazione e di sottomissione, la rivoluzione sarebbe diventata invincibile. Bisognava evitare in ogni modo il cortocircuito, da tempo annunciato ma dopo la guerra divenuto incombente, fra Vangelo e idealità e motivazioni laiche della rivoluzione socialista. Il massacro dei teologi della liberazione della Università centroamericana è solo un episodio di una repressione generalizzata che in tutto il mondo si è servita di ogni mezzo, compresa appunto la strage, per chiudere la bocca ai profeti. Il sistema di dominio mondiale che si era costituito dopo la guerra aveva bisogno per sopravvivere di reprimere la coscientizzazione e di togliere di mezzo l'idea contagiosa che il Vangelo possa essere uno strumento nelle mani del popolo per la liberazione storica e non solo per la salvezza trascendente dell'anima. C'è stato un momento in cui nei paesi dell'America Latina dominati da feroci dittature, come ad esempio in Salvador, Guatemala, Uruguay, era passibile di arresto o di sparizione chi veniva trovato in possesso della Bibbia, specialmente della "Biblia latino-americana", la cui traduzione era considerata sovversiva. Tanto che monsignor Oscar Romero poco prima di morire aveva consigliato ai catechisti e cristiani delle comunità di base di sotterrare la Bibbia.
         Il sangue dei cristiani delle comunità di base, dei teologi e dei pastori della liberazione è dunque confluito nel fiume di sangue versato nell'ultimo mezzo secolo per impedire la emersione delle classi popolari. E il sangue versato è stato solo l'aspetto più eclatante e ripugnante di una repressione che non ha risparmiato niente e nessuno. Perfino il cardinale Roncalli, prima di diventare papa, fu inquisito ed esplicitamente criticato dal Vaticano per sospetto filo comunismo, quando come patriarca di Venezia mandò gli auguri al Congresso del Partito socialista italiano. Una volta eletto papa non volle distruggere il suo dossier. "Certe sofferenze – disse al segretario mons. Loris Capovilla – devono essere risparmiate ai servitori della Chiesa ed è giusto che vengano ricordate affinché certi errori non si ripetano".

Enzo Mazzi
In Il processo dell’Isolotto, pp.50-60

lunedì 19 marzo 2012

Firenze - 22 marzo 2012 ore 17.00: invito


La Comunità dell’Isolotto e Manifestolibri
Invitano alla presentazione del libro
Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna
Introduce e coordina
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA

INTERVENTI DI
Mario Capanna politico e scrittore
Giancarla Codrignani docente di letteratura classica, politologa, teologa
Beniamino Deidda Procuratore Generale della Repubblica di Firenze

Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26



La memoria del vivere sociale ha una grande vitalità generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione egoistica. E' come la vitalità propria del seme: può restare a lungo apparentemente inattiva, a causa di contingenze storiche che ne impediscono lo sviluppo o la visibilità, ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme piccole e leggerissime che possono essere trasportate lontano dal vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)

Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda del processo alla Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte quasi 1.000 persone, 9 delle quali vennero incriminate per turbativa di funzione religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza.

Info
Comunità dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze
La Biblioteca delle Oblate si trova in Via dell’Oriuolo n° 26,  nel centro storico di Firenze, a due passi da Piazza del Duomo.
È possibile accedere all’edificio anche da Via Sant’Egidio n° 21.
Come arrivare in biblioteca:
in autobus: Linee ATAF 14 e 23 direzione Stazione S. Maria Novella (fermata  in via Bufalini), C1 (fermata via dell'Oriuolo) C2 (fermata Teatro Verdi) e tutte le linee che fermano in Piazza Stazione o in Piazza San Marco.
in treno: la stazione centrale di Santa Maria Novella dista dalla Biblioteca circa 10 minuti a piedi. Una volta usciti dalla stazione (lato Piazza dell’Unità), percorrere via Panzani e via Cerretani. Raggiunta Piazza del Duomo, attraversare la piazza rimanendo sulla sinistra ed entrare in via dell’Oriuolo. Dopo 100 mt sulla sinistra è visibile l’ingresso della Biblioteca segnalato anche da uno stendardo.
in automobile: la biblioteca è situata all’interno della ZTL (Zona Traffico limitato) del Comune di   Firenze. I parcheggi più vicini dove lasciare la propria vettura sono:
·       Parcheggio Sant’Ambrogio 
·       Parcheggio Piazza Beccaria 

Qui puoi vedere la mappa:

Noam Gur

La forza della giustizia, della verita` e della respnsabilita`.
Grazie Noam.
Luisa Morgantini


---------- Messaggio inoltrato ----------
Da: Tatiana Bertolini <taniabertolini@alice.it>
“Non sarò parte di questi crimini”: parla una refusenik
di Jillian Kestler-D’Amours (The Electronic Intifada)
Qualche giorno fa, la 18enne israeliana Noam Gur ha pubblicamente annunciato la sua intenzione di rifiutare l’obbligo al servizio militare.

Nella lettera aperta, Gur comincia dicendo: “Rifiuto di entrare nell’esercito israeliano perché non intendo far parte di un esercito che, fin dalla sua creazione, è stato impegnato nel dominio di un’altra nazione, nel saccheggio e il terrorismo contro una popolazione civile sotto il suo controllo”. (“I refuse to join an army that has, since it was established, been engaged in dominating another nation: An interview with Israeli refuser Noam Gur,” Mondoweiss, 12 March 2012).

La corrispondente di Electronic Intifada, Jillian Kestler-D’Amours, ha parlato con Gur sulle ragioni che l’hanno portata alla decisione di rifiutare il servizio militare, su quali reazioni abbia finora ricevuto e su quello che vuole che altri giovani israeliani sappiano in merito alla realtà dell’esercito israeliano.

JKD: Perché hai deciso di rifiutare il tuo servizio militare?NG: Israele, dal giorno della sua creazione, sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità, dalla Nabka (il trasferimento forzato di 750mila palestinesi tra il 1947 e il 1948) ad oggi. Lo vediamo nell’ultimo massacro a Gaza, lo vediamo nella vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione nella Striscia e in Cisgiordania, lo vediamo nella vita dei palestinesi in Israele, il modo in cui vengono trattati. Non credo di appartenere a questo posto. Non credo di poter personalmente prendere parte a tali crimini e penso che abbiamo il dovere di criticare l’istituzione militare e i crimini che compie e uscire allo scoperto per dire che non serviremo in un esercito che occupa un altro popolo.

JKD: Questo porta ad un’altra domanda: perché hai deciso di rendere pubblico il tuo rifiuto, invece di – come in genere fanno altri israeliani che non svolgono il servizio militare – usare una scusa?NG: Dieci anni fa ci fu un imponente movimento di refusenik e negli ultimi due o tre anni è quasi scomparso. Sono la sola refusenik quest’anno, per me è un modo per far sapere alla gente che ancora esistiamo, prima di tutto. In secondo luogo, non voglio restare in silenzio. Sento che fin dalle scuole superiori, siamo sempre rimasti in silenzio. Lasciamo sempre che le nostre critiche escano fuori in piccoli circoli. Il mondo non lo sa, i palestinesi non lo sanno. Non so se cambierà qualcosa, ma io posso solo provare. Mi sento meglio con me stessa, sapere che ho provato a compiere anche solo il più piccolo cambiamento.

JKD: La tua famiglia ha avuto un’influenza nella tua decisione di rifiutare il servizio militare?NG: I miei genitori non sono politicizzati. Entrambi hanno servito nell’esercito. Mio padre ha preso parte alla prima guerra in Libano ed è stato ferito. Mia madre, la stessa cosa. La mia sorella maggiore era nella polizia di frontiera. Il mio destino era terminare gli studi e entrare nell’esercito. Era il mio percorso naturale. Da quando ho 15 anni, ho iniziato ad interessarmi alla Nakba del 1948. Ho cominciato a leggere e a comprendere il quadro completo. Non so esattamente perché, ma è successo. Più tardi, ho letto le testimonianze e le storie di palestinesi della Cisgiordania e di ex soldati, ho conosciuto amici palestinesi e partecipato a manifestazioni di protesta in Cisgiordania, vedendo cosa sta avvenendo con i miei occhi. A 16 anni, ho deciso di non servire nell’esercito.

JKD: Quale reazione c’è stata dopo il tuo annuncio pubblico?NG: I miei genitori non mi hanno sostenuto. Credo che mia madre e mio padre sappiano che non hanno possibilità di fermarmi perché è la mia decisione e ho 18 anni. Non sono più in contatto con la maggior parte dei miei compagni di scuola, molti di loro sono nell’esercito. Ho ricevuto tante positive risposte negli ultimi giorni, ma anche commenti poco amichevoli.

JKD: Come ti hanno fatto sentire simili commenti?NG: Mi hanno fatto capire che devo andare avanti con quello che sto facendo. Molti commenti mi hanno fatto sentire…anche se erano crudeli, mi hanno fatto capire che sto facendo la cosa giusta perché sto seguendo i miei ideali. È quello che penso sia giusto e non mi importa di quello che la gente dice.

JKD: Cosa accadrà quando formalmente rifiuterai il servizio militare?NG: Il 16 aprile devo presentarmi al centro di reclutamento di Ramat Gan. Andrò lì e dichiarerò che rifiuto. Starò lì qualche ora e poi sarò giudicata e condannata alla prigione, da una settimana ad un mese. passerò il mio tempo in un carcere femminile e poi sarò rilasciata. Quando sarò fuori, andrò di nuovo a Ramat Gan e di nuovo sarò condannata, da una settimana ad un mese. Continuerà così fino a quando l’esercito deciderà di smettere.

JKD: Cosa deve cambiare dentro la società israeliana perché sempre più giovani decidano di rifiutare il servizio militare?NG: Non sono sicura ch questo possa accadere. Credo che siamo ad un punto di non ritorno. Se davvero vogliamo cambiare qualcosa nella società israeliana, la pressione deve essere davvero forte, da fuori. È per questo che sostengo la campagna Boicottaggio Disinvestimento & Sanzioni. È davvero difficile cambiare qualcosa dall’interno. Quasi impossibile.

JKD: Cosa vorresti dire agli altri diciottenni israeliani che stanno per cominciare il servizio militare?
NG: Credo sia importante che ognuno guardi a cosa sta facendo. Penso che molti diciottenni, per mia esperienza personale, non sappiano cosa stanno per fare. Non sanno quello che accade a Gaza e in Cisgiordania. Il solo modo in cui vedranno i palestinesi per la prima volta sarà da soldati. Sarebbe intelligente per cominciare, prima di entrare nell’esercito, capire qual è la realtà. Cercare di realizzare, parlare con la gente. Non è così spaventoso. Cercare di leggere quello che la gente dice. Penso sia veramente importante capire quello che sta avvenendo.

Jillian Kestler-D’Amours è una reporter e regista di documentari a Gerusalemme. Potete trovare il suo lavoro su http://jkdamours.com

giovedì 15 marzo 2012

Giulio Girardi

27 febbraio 2012

Messaggio di Gerardo Lutte dal Guatemala, letto al funerale di Giulio Girardi


Ho avuto il privilegio di una storia di amicizia con Giulio, durata 55 anni. Abbiamo vissuto e lavorato insieme dal ’58 al ’69 nell’Universitá Salesiana, dove avevamo molti altri amici, prima di tutti Bruno, con il quale formavamo un trio ben saldato, e anche Ramos Regidor, Manolo Gutierrez e altri che formavano il gruppo dei “manco venti”, che si impegnava per promuovere un rinnovamento evangelico, cioè al servizio dei poveri, della congregazione e della nostra Università. Poi le nostre vie si sono separate, ma sempre siamo rimasti uniti nei momenti duri e gioiosi della nostra vita.
Giulio è senz’altro un uomo che ebbe una grande influenza nella seconda metà del secolo scorso su tante persone del mondo cattolico, non solo in Italia, ma nel mondo intero, perché era un teologo della liberazione, consigliere di vescovi progressisti durante il Concilio Vaticano II. Le sue teorie hanno facilitato la nascita del movimento delle comunità di base e il movimento dei cristiani per il socialismo, prima in America Latina, poi in Europa.
Giulio era anche un grande filosofo, un filosofo della liberazione e il suo insegnamento ha marcato profondamente la formazione intellettuale di migliaia di persone. Era anche molto impegnato con tutti i movimenti di liberazione, particolarmente in America Latina e ha messo a disposizione di questi movimenti la sua riflessione teorica profonda e acuta, scrivendo numerosi libri su questo argomento.
Si è interessato anche di pedagogia, mettendo in risalto l’importanza dell’amicizia liberatrice nel rapporto educativo e analizzando come il dominio imperialista sull’economia è reso possibile dall’imperialismo culturale che pervade l’insegnamento a tutti i livelli e i mezzi di comunicazione di massa.
Giulio si distingueva da un grande rigore scientifico. Si aggiornava di continuo e non avrebbe mai utilizzato lo stesso testo per fare due lezioni o due conferenze sullo stesso tema. Sempre riscriveva da capo tutti i suoi interventi. Aveva trasformato il suo appartamento in biblioteca.
La sua ricerca non era puramente teorica, si faceva a partire dall’osservazione e dalla riflessione sulle esperienze concrete di liberazione. Ha condotto ricerche scientifiche di alto livello con la partecipazione degli attori della liberazione: gli operai della FIAT a Torino, durante gli anni della contestazione; i giovani della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, sottolineando che solo un metodo educativo basato sulla partecipazione e sul protagonismo degli stessi giovani, poteva aiutarli a liberarsi veramente. Fece anche una ricerca sull’importanza dell’amicizia liberatrice nell’educazione, analizzando la vita del Vescovo latino americano Proaño, impegnato con le comunità indigene del suo paese nel fare rispettare i loro diritti.
La sua vita era coerente con le sue teorie. Giulio non si è arricchito, non ha vissuto nel lusso e nelle comodità e tutta la sua vita è stato fedele all’annuncio della buona novella di liberazione dei poveri. Andava dovunque fosse chiamato, da una parte all’altra dell’Italia e del mondo, per una conferenza, un seminario, un corso di formazione, una ricerca. Ha accettato di fare, per vari anni, seminari ai miei studenti sulla cultura indigena e i movimenti di liberazione in America Latina. Gli studenti che hanno partecipato mi hanno più volte detto che questi seminari sono stati fondamentali nella loro formazione.
Giulio non poteva non interessarsi e amare le ragazze e i ragazzi di strada. Ha accettato di essere il padrino della figlia di una di queste ragazze, che aveva conosciuto mentre stava in Nicaragua. Ha partecipato a vari incontri della nostra onlus Amistrada, per trattare temi per noi importanti. Si è proposto di venire a spese sue in Guatemala a condurre un seminario con le ragazze e i ragazzi del Comitato di gestione, che dirigono il loro movimento, e con i consiglieri adulti. Ha trattato, sulla base delle esperienze dei partecipanti, il tema dell’amicizia liberatrice. Il suo apporto ci ha profondamente influenzato, al punto che il nostro metodo educativo è basato sull’amicizia liberatrice.
Qualche settimana prima di morire, Giulio, che da giorni non voleva mangiare e non parlava, ha raccolto le sue forze come se avesse presentito la sua fine prossima, e voleva comunicare un’ultima volta con le persone a lui più care. Sono stato avvisato e mi sono messo in contatto telefonico con lui tramite il nostro amico e fratello comune Bruno, che gli ripeteva quanto dicevo, perché non riusciva a decifrare la mia voce al telefono. Mi ha detto quanto era contento di rivedere la ragazza di cui era il padrino, che oggi ha 18 anni e finisce brillantemente gli studi secondari, e doveva venire in Italia nell’ottobre prossimo. E quando gli chiesi cosa dovevo dire alle ragazze e ai ragazzi di strada mi rispose: “Devono credere nella resurrezione!”.
Giulio, amico, fratello, compañero, lungo la tua vita hai aiutato tante persone a risorgere, a riprendere fiducia in se stessi, a diventare responsabili della loro vita e della società. E noi continueremo il tuo sogno utopico che cambia la realtà, la realtà di resurrezione degli ultimi, degli oppressi, dei poveri. Tu ci hai insegnato che sono i poveri i soli capaci di liberarsi e di aiutare noi stessi a liberarci. Grazie Giulio.
Fonte
Un articolo della Stampa - !5 febbraio 2012

mercoledì 14 marzo 2012

Il processo dell'Isolotto


Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26
Presentazione del libro



Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna

La Comunità dell’Isolotto e Manifestolibri
Invitano alla presentazione del libro
INTRODUCE E COORDINA
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
INTERVENTI DI
Mario Capanna politico e scrittore
Giancarla Codrignani docente di letteratura classica, politologa, teologa
Beniamino Deidda Procuratore Generale della Repubblica di Firenze
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26
La memoria del vivere sociale ha una grande vitalità
generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del
tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità
solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione
egoistica. E' come la vitalità propria del seme: può restare
a lungo apparentemente inattiva, a causa di contingenze
storiche che ne impediscono lo sviluppo o la visibilità,
ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e
inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme
piccole e leggerissime che possono essere trasportate
lontano dal vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)
Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda del processo alla Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte quasi 1.000 persone, 9 delle quali vennero incriminate per turbativa di funzione religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza.
Info
Comunità dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze tel. 055 711362.
E-mail comis@videosoft.it, bibliotecadelleoblate@comune.fi.it


Scheda editoriale
Quella della comunità fiorentina dell’Isolotto fu, alla fine degli anni Sessanta, una partecipata esperienza religiosa e laica, sociale, politica e culturale. E su di essa si abbattè una reazione tra le più immediate, virulente e indicative di quanto la presa di parola dal basso avesse allarmato i poteri costituiti. Nel processo del 1971, che il volume ricostruisce e ripercorre, furono coinvolte quasi mille persone. Nel saggio introduttivo di Enzo Mazzi, attraverso l’esercizio della memoria, che accosta fatti e valutazioni, si mostra come il processo contro la comunità dell’Isolotto sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza. Oltre alla ricostruzione dei fatti, il volume è completato dall’arringa di Lelio Basso durante il dibattimento, che costituisce un documento inedito di straordinario valore storico e giuridico, nonché dalle testimonianze che importanti personaggi quali Pietro Ingrao, Ernesto Balducci, Hans KÜng, Franco Cordero, Lucio Lombardo Radice e altri resero al tempo dei fatti.
Editrice Manifesto

Comunicato della Comunità
Anni "70"  il processo alla comunità dell'Isolotto: un intero quartiere a giudizio per non aver chinato il capo e non aver accettato passivamente l'annientamento di una esperienza e di una identità. La memoria di ieri per leggere i fatti dell'oggi.
Abbiamo riedito quella esperienza in una nuova pubblicazione che verrà presentata giovedì 22 marzo alle ore 17 alla "biblioteca delle Oblate" in via dell'Oriuolo 26 Firenze alleghiamo l'invito da inoltrare anche a persone che si ritiene interessate.

Estratti dal libro:


(Da "Il processo dell'Isolotto", Premessa della Comunità dell'Isolotto, pp.13-18) Manifestolibri ed. 2011,  passim).
1 - voi non andate a giudicare solo noi nove, voi non andate a giudicare neppure il popolo dell’Isolotto. Giudicate una tendenza, una forza viva che oggi c’è nella società, nella storia. Hanno detto gli avvocati che la vostra sarà una sentenza storica. Noi crediamo che questo sia vero proprio perché l’Isolotto è una parte, una piccola parte di un movimento molto più ampio”. 
2 - Questa dichiarazione concluse il dibattimento del processo contro l’Isolotto prima della sentenza del Tribunale, il 5 luglio 1971. Fu letta da una delle nove persone sotto giudizio: quattro laici della Comunità Isolotto e cinque preti di cui due fiorentini e tre di altre città italiane. Rappresentava i sentimenti, le emozioni, le preoccupazioni di tutti, non solo di coloro che erano giudicati in quel processo ma anche dei quasi cinquecento che erano stati inizialmente rinviati a giudizio e poi amnistiati e soprattutto era espressione dell’intera comunità. 
3 - La nostra rivisitazione non è pura riesumazione di un passato sepolto ma è“memoria storica” che ha senso per l’oggi. Perché la memoria è creativa, generativa di presente e di futuro.  
4 - La dichiarazione fu fatta anche a nome di un’intera società civile che vedeva nel processo dell’Isolotto un momento particolare ma forte ed emblematico di quell’imponente processo storico di trasformazione globale della società che era stato ed era ancora il ’68. 
5 - Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del ‘68-‘69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. 
6 - Riteniamo di trovarci sulla stessa lunghezza d’onda dello storico statunitense Howard  Zinn: “Se la storia ha da essere creativa in modo da anticipare un possibile futuro senza negare il passato, essa dovrebbe mettere in evidenza nuove possibilità mettendo in luce quegli episodi del passato che sono stati tenuti nascosti, quando, anche se in brevi sprazzi, la gente dimostrò la sua capacità di resistere, di mettersi insieme, e qualche volta di saper vincere. 
7 - Siamo preoccupati, indignati per quello che sta succedendo nella vita politica e nella stessa vita ecclesiale. Soprattutto siamo disorientati. Come abbiamo potuto ridurci in questo stato? Come se ne esce? Forse abbiamo cercato soluzioni girando intorno all'asse del potere, lottando o facendo il tifo per chi lottava con gli stessi metodi e con gli stessi schemi culturali dei centri di potere, convinti che una volta raggiunto il mitico potere lo avremmo usato diversamente. Non vogliamo dire che bisogna abbandonare la lotta politica. Ma che occorre rovesciare lo schema di pensiero. Partire dal basso, dalla vita, dalle relazioni essenziali, dalla solidarietà strutturale e fondamentale, dalle piccole cose, invece che dall'alto. 
8 - Luis Macas, intellettuale quichua ecuadoriano, afferma:
“La politica organizza l’esistente: non crea realtà nuove. L’unica cosa che può cambiare in profondità l’esistente consiste nel creare e nel porre nella realtà data realtà nuove, che mettono in discussione l’esistente e con la loro presenza lo portano a ristrutturarsi. La principale e decisiva attività trasformatrice è l’attività creativa, quella capace di introdurre effettive novità storiche”.
 Qualche altro ha scritto: “Non si possono risolvere i problemi con gli stessi schemi di pensiero con cui sono stati creati”.  
9 - Barach Obama al Parlamento del Ghana: “Il mondo sarà come voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare il vostri leader a render conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano a servizio del popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la storia sta cambiando”.    

(Da “la frontiera della memoria” di Enzo Mazzi, pp.19-62 del libro, passim)
La “Chiesa dei poveri”, la Chiesa delle comunità di base e della teologia della liberazione, la Chiesa di ispirazione conciliare, la Chiesa del dialogo deve essere repressa, in America Latina, come nelle Filippine, come nel Nord del mondo.  Va fermata anch’essa“con ogni mezzo”: finché è possibile con gli strumenti del Diritto Canonico, ma se non basta ci vuole il braccio secolare.  Viene perciò finanziata, sostenuta e potenziata la parte di Chiesa conservatrice, assistenzialista, autoritaria, spiritualista, anticomunista, per aiutarla a emarginare e reprimere al suo interno le esperienze conciliari. Ma ove, come nel Terzo Mondo, non sia sufficiente la repressione intraecclesiale, la strategia repressiva dovrà usare mezzi violenti come i massacri di preti, vescovi, leader laici di comunità di base.
La personalità, il messaggio e l’uccisione di mons. Romero sono ormai note in tutto il mondo. C’è perfino una causa di beatificazione che giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni. Tempi che arriveranno, perché  il potere ecclesiastico ha fame di santi. La mitizzazione/santificazione di soggetti umani che emergono per il loro eroismo crea nella massa sensi di frustrazione morale di fronte a modelli di santità irraggiungibile, genera in tutti noi sensi di colpa, produce personalità insicure, dipendenti e quindi inclini alla eterodirezione e alla ubbidienza. Ecco il motivo profondo della santificazione ufficiale: favorire il dominio. Noi, le formiche, i comuni mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo insignificanti, bisognosi della protezione del potere, come bambini indotti dalla loro insicurezza a gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero d’America servirà a far dimenticare che egli quando era in vita è stato ostacolato, combattuto e ucciso da quegli stessi poteri che poi hanno favorito la sua santificazione. È vero che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El Salvador e di tutta l’America latina già subito dopo l’uccisione. Anche il popolo ha bisogno di santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però presenta anche rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale, un vescovo che si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di liberazione di essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per sgretolare il sistema del dominio oppressivo. Romero santo può significare il riscatto della santità del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i suoi riti potenti, che penetrano fin dentro l’intimo delle coscienze, sradica il simbolo del riscatto dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa oggetto di culto anziché di ispirazione, lo rende strumento di alienazione. Meno noti e meno recuperabili per la santificazione sono le centinaia di preti e teologi della liberazione che furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a fianco del popolo e ne favorivano la coscientizzazione. La teologia della liberazione che essi elaboravano e diffondevano costituisce la versione centroamericana di una teologia incarnata nella storia della liberazione dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi. La parola “teologia” può portare fuori strada perché può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e dottrinale. In realtà si tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla lotta, dalle esperienze pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una teologia che di fondo, non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha ispirato papa Giovanni XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è diffusa in tutto il mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti culturali.
Ritengo che forse questo tempo della notte fonda, della nebbia fitta, è il tempo che richiede lo sguardo attento ai segni minimi dell’avvento di una nuova stagione. Forse è il tempo di una solidarietà rinnovata negli obiettivi e nei metodi che privilegi le relazioni più che le realizzazioni, che faccia crescere la consapevolezza complessiva più che indicare un preciso nemico, che crei identità collettive di gente consapevole della propria dignità più che addormentare con promesse salvifiche dall’alto, che tenti esperienze nuove di relazione, comunità oltre i confini, mentre si oppone alle relazioni e alle comunitarietà chiuse, fondate sul dominio del danaro e sulle sue istituzioni.
Ha espresso con la sensibilità consueta queste stesse cose Pietro Ingrao in una Tavola rotonda sulla Violenza del sacro, svoltasi a Firenze in un gremitissimo salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nell’ambito del Convegno del 1987 delle comunità di base sulla Laicità. Alla fine dell’intervento volle regalarci una sua poesia di tre versi:
 “Mordi musica, anima, vita,/
 domanda, parla, grida il desiderio deriso, le fragili comunioni,/
leva in alto la sconfitta”.
E poi spiegò: Levare in alto la sconfitta vuol dire che quello che appare impossibile matura però nel grembo delle cose. E le fragili comunioni, pur essendo fragili e non ancora vittoriose, recano in sé, sia pure esposto, debole, ma in una misura che preme, il germe di un altro rapporto fra esseri umani, un rapporto dove ceda il dominio ed entri in campo la comunicazione, dove ciascuno di noi non sia più possessore, proprietario, vincitore, non più chiuso nella gabbia del dominio incomunicante, ridotto solo ad essere parte,soltanto parte. Levare in alto la sconfitta vuol dire sperare di entrare in una connessione che valorizzi ma anche oltrepassi l’enorme straordinarietà del singolo, ne superi i limiti e i confini, ne scavalchi anche la frantumazione e l’accaduto irrimediabile e la lacerante solitudine nella folla e finalmente apra una strada per una vita che abbia come primo senso il comunicare…”.

domenica 11 marzo 2012

Associazione IDRA

Incontro molto istruttivo con Girolamo dell'Olio sulla TAV, domenica 11 marzo 2012.  Con proiezioni di immagini a sostegno delle informazioni riguardanti la TAV di attraversamento Firenze e Mugello. Un prezioso materiale conoscitivo. Vale la pena di tenersi in contatto con questi volontari dell'informazione:
sul loro sito:
http://associazioni.comune.fi.it/idra/inizio.html
sul loro blog:
http://idrafirenze.wordpress.com/
Su Facebook
http://www.facebook.com/profile.php?id=1800297995&ref=name

Nota:

Chi è Idra?

Molto lontano dal Palazzo, dove sono tutti buoni o buonisti, vive e si riproduce Idra, un'associazione di cittadini cattivi.
Cattivi perché credono e si battono per la legalità, per la trasparenza, per il buon governo della cosa pubblica, per il diritto alla salute, all'ambiente e al futuro.
Senza mediare fra diritti e torti. Per la giustizia.
Idra non chiede e non accetta denaro pubblico o sponsorizzazioni commerciali: è un'associazione di volontariato all'antica, una società di mutuo soccorso dove ognuno cerca nelle proprie tasche e nel proprio cuore le risorse che servono ad aiutarsi e a tutelare la casa comune.
Idra mette a disposizione dei cittadini un servizio di assistenza e auto-aiuto contro gli abusi ambientali (Alta Velocità ferroviaria, Variante di valico, terza corsia autostradale, cementificazione della Piana di Firenze, emergenze idrogeologiche, ecc.): l'associazione informa le autorità istituzionali sui casi segnalati dai cittadini, perché sia garantito l'esercizio della giustizia ambientale e della legalità amministrativa.
Le segnalazioni possono essere fatte:
  • telefonando ai numeri 055.48.03.22, 320.16.18.105, 055.41.04.24, 055.233.76.65
  • scrivendo all’indirizzo postale dell'associazione in Via Giano della Bella 7, 50124 FIRENZE
  • trasmettendo in orario diurno ai fax 055.233.76.65 e 055.41.04.24
  • scrivendo all'indirizzo di posta elettronica idrafir@tin.it.
Idra è iscritta al Registro Regionale del Volontariato della Toscana e ispira le proprie iniziative alla tradizione laica e non-violenta.
Attraverso convenzioni informative con le istituzioni permette a molte carte che resterebbero nei cassetti di uscire e di essere conosciute.
Idra stampa un notiziario annuale, ha un indirizzo di posta elettronica (idrafir@tin.it) e l’indirizzo internet http://associazioni.comune.firenze.it/idra/inizio.html.
Per il sostegno, i contributi possono essere versati sul conto corrente postale n. 26619502 intestato a: Associazione di volontariato Idra, Via Giano della Bella 7, 50124 FIRENZE.

Come al mostro della mitologia greca, a Idra per ogni testa che le tagli gliene ricrescono dieci.