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venerdì 8 marzo 2013

Da Catacombe 1965 a Cappella Sistina 2013


Promemoria per i porporati riuniti in questi giorni nella Cappella di Michelangelo.
( Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che ’l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m’è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso).
Una testimonianza fra le più significative è stata quella di 500 Vescovi, alla fine del Concilio, che, con la loro presa di posizione,  indicano qual è la strada da seguire per un vero rinnovamento della Chiesa; un documento sconosciuto ai più.
E’ il cosiddetto ‘Patto delle catacombe’.
Fu scritto il 16 Novembre 1965 alle Catacombe di Domitilla, a 40 km da Roma, da 40 Vescovi provenienti da vari continenti. Poco dopo il numero dei firmatari si allargò a 500 Vescovi. 

                                PATTO DELLE CATACOMBE    (16 Novembre 1965)
Noi vescovi, essendo stati illuminati sulle deficienze della nostra vita per ciò che riguarda la povertà evangelica, incoraggiandoci gli uni gli altri in una medesima iniziativa nella quale ciascuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; uniti a tutti i nostri fratelli nell’'episcopato; contando soprattutto sulla forza e la grazia di nostro Si­gnore Gesù Cristo, sulle preghiere dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; mettendoci, col pensiero e con la preghiera, al co­spetto della Trinità, della Chiesa di Cristo, del clero e dei fedeli delle nostre diocesi; nell'umiltà e nella coscienza della nostra debolezza ma anche con tutta la determinazione e la forza della quale siamo sicuri che Dio voglia darci la grazia, ci impegniamo a quel che segue:
1. Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l'abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20).
2. Rinunziamo per sempre all'apparenza e alla realtà della ric­chezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (queste insegne devono essere di fatto evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6).
3. Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; e se sarà necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc 12,33.34).
4. Affideremo, ogni volta che sia possibile, la gestione finanzia­ria e materiale nelle nostre diocesi a un comitato di laici compe­tenti e consapevoli del loro compito apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).
5. Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chia­mati con l'appellativo evangelico di "padre”.
6. Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (per esempio: ban­chetti offerti o accettati, "classi” nei servizi religiosi ecc.; cf. Lc 14,12.14; I Cor 9,14.19).
7. Eviteremo anche di incoraggiare o di lusingare la vanità di chiun­que con la prospettiva di ricavarne ricompense o regali o per qua­lunque altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare le loro offerte come una normale partecipazione al culto, all'apostolato e all’azione sociale (cf. Mt 6,2.4; Lc 16,9.13; 2Cor 12,14).
8. Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in con­dizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo nuoccia ad altre persone o gruppi della diocesi. Sosterremo i laici re­ligiosi, i diaconi e i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai e a condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc 4,18; Mc 6,3; Mt 11,4-5; At 18,3.4; 20,33.35; I Cor 6,12).
9. Consapevoli delle esigenze della giustizia e della carità e dei loro mutui rapporti, noi cercheremo di trasformare le opere di be­neficenza in opere sociali, basate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze come un umile servi­zio degli organismi pubblici competenti (cf. Mt 25,31-46; Lc 12,13-14; 18,34).
10. Faremo di tutto perché i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici stabiliscano e applichino leggi sociali e promuo­vano le strutture sociali necessarie alla giustizia, all'eguaglianza e allo sviluppo armonioso e totale di tutto l'uomo in tutti gli uomini e giun­gano con questo a stabilire un nuovo ordine sociale degno dei figli del­l'uomo e dei figli di Dio (cf. At 2,44.45; 4,32.33.35; 5,4; 2Cor 8,9; ITm 5,16).
11. Poiché la collegialità episcopale trova la sua attuazione più evangelica nell'assumersi in comune l'onere delle masse umane in stato di miseria fisica, culturale e morale (due terzi dell'umanità), noi ci impegniamo a partecipare, secondo le nostre possibilità, agli inve­stimenti urgenti degli episcopati poveri; di raggiungere insieme, a li­vello delle organizzazioni internazionali ma a testimonianza del Vangelo, come il papa all'ONU, lo stabilimento di strutture econo­miche e culturali che non accrescano il numero delle nazioni prole­tarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché il nostro mi­nistero sia un vero servizio. Così ci sforzeremo di “rivedere” la no­stra vita con il loro aiuto. Prepareremo dei collaboratori per poter maggiormente animare il mondo. Cercheremo di essere più umana­mente presenti e accoglienti; ci mostreremo aperti a tutti quale che sia la religione di ciascuno (cf. Mc 8,34.35; At 6,1-7; ITm 3,8.10).
13. Ritornati nelle nostre rispettive diocesi, noi faremo conoscere ai nostri diocesani queste nostre decisioni, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Che Dio ci aiuti a essere fedeli.

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O si riparte da qui o non c’è speranza!
Come si giunse a questo documento? Già Papa Roncalli, in un messaggio radiofonico ai cattolici del mondo, un mese prima dell’apertura del Concilio (il Concilio Vaticano II è durato dall’11 Ottobre 1962 al 7 Dicembre 1965) aveva affermato che la Chiesa si deve presentare al mondo come Chiesa di tutti e particolarmente come Chiesa dei poveri.
          Il Card. Lercaro, Arcivescovo di Bologna, che aveva trasformato il proprio Palazzo arcivescovile in un orfanotrofio e che poi sarà nominato come uno dei 4 Moderatori del Concilio, al termine della I Sessione riprese questa richiesta di Roncalli, chiedendo ai Padri conciliari di rendere la questione della presenza di Gesù Cristo nei poveri, non un tema fra gli altri, ma la questione centrale del Concilio.
          Il tema ‘Gesù, i poveri e la Chiesa’ era già stato lanciato dal Vescovo di Nazareth e dal Vescovo di Tournai in Belgio, perché avevano distribuito ai Padri conciliari uno scritto di Paul Gauthier, prete operaio a Nazareth, nel quale la povera gente di quella città poneva ai Padri la richiesta di considerare la stretta relazione di amore che deve unire la Chiesa e i poveri.
          Questa iniziativa sfociò poi nella nascita di un gruppo informale, animato dallo stesso Vescovo di Tournai e dal Card. Gerlier, formato da più di 50 Vescovi e da una trentina di esperti conciliari. Tra questi c’erano Helder Camara, Vescovo di Recife, Manuel Larrain Vescovo di Talca in Cile che poi furono tra i primi firmatari del ‘Patto delle Catacombe’. Mons. Larrain addirittura verrà citato da Paolo VI nell’Enciclica ‘Populorum progressio’.
          Il Papa fu sempre tenuto informato di questi lavori. Anzi fu proprio Paolo VI a indire un’assemblea dei Vescovi latino-americani e poi nel 1968 a fare il viaggio a S. Josè de Mosquera in Colombia, quando si inginocchiò davanti ai contadini, una delle popolazioni più povere del mondo. Sono belli e significativi i simboli, ma se restano solo gesti?.........
Questi sono gli antefatti del cosiddetto ‘Patto delle Catacombe’.

Quello che è successo in questi ultimi anni dentro le mura vaticane non solo tradisce quegli obiettivi profetici di cui parla il documento dei 500 Vescovi, ma si pone su un piano condannabile perfino dal Codice penale.
Che ci sia questa vergognosa lotta di potere all’interno del Vaticano è fuori discussione, ma riconoscere la crisi può diventare un’occasione opportuna di conversione e di rinascita. Secondo me è giunto il momento che la Chiesa passi da una struttura rigidamente monarchica, che consente rapporti di potere al suo interno, ad una struttura dialogica, conciliare. Anche la gestione dei beni della Chiesa deve essere pubblica, trasparente, controllabile dal popolo cristiano.
‘Chiesa per i poveri’ o ‘Chiesa povera’? Ai tempi del Concilio era un’alternativa forte. Sembra quasi la stessa cosa, ma c’è un abisso fra questi due obiettivi. Il primo può giustificare gli intrallazzi più impensabili per acquistare potere e danaro, col pretesto di aiutare chi ha bisogno. Il secondo esige un totale coinvolgimento con gli ‘ultimi’.
Il libro di Geremia si apre con questa visione: il Profeta vede da una parte un ramo di mandorlo che sta per fiorire; dall’altra una caldaia inclinata che sta per rovesciarsi. Sono due possibilità che sia la Chiesa che l’umanità hanno davanti: lo sbocciare di una nuova stagione oppure la devastazione più completa. Ma Dio è ‘vigile’; se avremo il coraggio di rinnovarci, una nuova primavera ci attende.

don Fabio Masi – Parroco

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