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sabato 22 giugno 2013

Padre Balducci - D.Gallo

          

                                                                                    
In occasione del trigesimo della morte di don Andrea Gallo e a poco più di un ventennio da quella di padre Ernesto Balducci, il circolo ARCI “La Montanina”, in collaborazione con l’Assessorato alla Formazione del Comune di Fiesole, è lieto di invitare i soci e gli amici all’incontro sul tema:



“Testimoni scomodi del nostro tempo:
Don Andrea Gallo e Padre Ernesto Balducci
                                          
 che avrà luogo domenica 23 giugno 2013 alle ore 17,00

con la presenza di:

Maria Luisa Moretti, assessore alla Formazione
                                                        del Comune di Fiesole
don Andrea Bigalli, parroco a San Casciano in Val di Pesa,
                                        membro del comitato regionale toscano di “Libera”     Giovanni Bellumori, medico, membro del comitato scientifico
                          della Fondazione “Ernesto Balducci”



Circolo ARCI “La Montanina” – Via di Montebeni 5 - Fiesole

lunedì 17 giugno 2013

L'economia della truffa

        “A che punto siamo arrivati! L’economia della truffa”

       Sintesi della relazione tenuta al “Giardino dei ciliegi” il 31 maggio 2013

La riflessione su questo tema è stata suggerita da alcune truffe “ideologiche” di esponenti di spicco della classe dirigente mondiale ed europea, smascherate dall’analisi critica di alcuni economisti, come si dirà più avanti. Questi episodi hanno richiamato l’attualità di un libro scritto nel 2004, a 96 anni, dall’economista americano John K. Galbraith, dal titolo “L’economia della truffa”. In esso si denuncia il carattere ideologico della teoria economica dominante, messa al servizio dei grandi interessi capitalistici. Galbraith sottolinea il fatto che in economia l’inganno ed il falso sono accettati sia da chi li compie, sia da chi li subisce, in quanto endemici al nostro tessuto sociale. In tal modo la realtà viene mistificata e si distorce a piacimento la verità dando vita a miti e leggende: la speculazione come forma d’ingegno, l’economia di libero mercato come sistema di massima efficienza per risolvere i problemi del mondo, la guerra come strumento di democrazia.
Ciò che caratterizza in particolare l’ideologia economica è l’abbandono della categoria “capitalismo” sostituita da quella di “mercato” che riduce il processo economico a puro e semplice meccanismo di scambio, la cui efficienza sarebbe assicurata dalla libera concorrenza a vantaggio del “consumatore sovrano” che otterrebbe le merci ai prezzi più bassi possibili. Si nasconde in tal modo la realtà del dominio attuale praticato da veri e propri poteri oligopolistici e/o monopolistici, giacché sono le grandi imprese e non il mercato impersonale a manovrare i prezzi per realizzare il massimo profitto. Il meccanismo economico è ridotto così alla fase della circolazione della ricchezza, trascurando la premessa fondamentale della produzione, la cui natura capitalistica è attestata dal rapporto sociale conflittuale fra capitale e lavoro.

Categoria indispensabile per comprendere la realtà attuale è perciò quella di “capitalismo”, che è la forma storico-sociale assunta nel mondo moderno dalla funzione economica, presente in tutte le società come attività organizzata di base per produrre le risorse necessarie al mantenimento della vita individuale e collettiva. Occorre allora partire dalla strutturale legge del meccanismo capitalistico che assegna al sistema economico della produzione e della distribuzione della ricchezza, non l’obiettivo della soddisfazione dei bisogni umani, che dovrebbero essere definiti autonomamente dalla società che si vuole democratica, bensì quello della soddisfazione del bisogno di valorizzazione ed accumulazione del capitale. Di conseguenza gli è necessaria l’egemonia culturale come strumento di potere per controllare la vita sociale, imporre il modo di consumo funzionale ai suoi interessi, mettere al proprio servizio l’agire politico dei governi e dei parlamenti. Sotto il profilo dei rapporti di produzione, lo sfruttamento del lavoro è decisivo per ottenere la massima redditività del capitale. Quindi il conflitto di classe fra capitale e lavoro è oggettivamente strutturale, come mostra il recente libro di Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”. “Dopo”, perché è scomparsa la lotta di classe dal basso, agita e diretta dal mondo del lavoro e dalle sue rappresentanze sindacali e politiche, in quanto il soggetto lavorativo ne è stato espropriato ed il conflitto sociale è oggi praticato e governato dall’alto, dal capitale stesso. Basta ricordare la recente vicenda Fiat , col duro attacco di Marchionne ai diritti del lavoro ed ai salari.


                           L’origine dell’attuale fase storica del capitalismo

Nel secondo dopoguerra fino ad oggi, possiamo suddividere l’andamento dell’economia capitalistica in tre fasi: quella del keynesismo sociale, quella neoliberista e quella della crisi in corso.



                                                 Il periodo 1945-anni ‘70

Superata con la guerra la crisi degli anni ’30, per evitare di ricadere in quella depressione e per far crescere l’economia, il capitalismo si è affidato alla politica, se non altro sotto la minaccia sovietica come alternativa al sistema occidentale.
Possiamo sintetizzare in alcuni punti le caratteristiche fondamentali di questa fase: concezione politica dell’economia, regolazione sociale del capitalismo, compromesso capitale/lavoro col conflitto distributivo mediato politicamente ed orientato verso la classe lavoratrice.
E’ stata l’epoca in cui è nato lo Stato sociale, con fondamentali diritti, con al primo posto quello al lavoro, a cui si aggiungono il diritto alla salute, all’istruzione per tutti e via dicendo. Il diritto al lavoro è chiaramente enunciato nella Carta delle Nazioni Unite al cap.IX, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo artt. 22/23, e nella nostra Costituzione , art. 4, 35/6, con l’aggiunta che l’attività economica pubblica e privata deve avere fini sociali, art.41.
La politica dei governi, di ispirazione keynesiana, è stata la politica della domanda. Poiché il meccanismo economico capitalistico, nella sua autonomia, non è capace di esprimere una domanda all’altezza della produzione possibile, generando disoccupazione, allora per garantire il diritto al lavoro col pieno impiego deve intervenire la spesa pubblica e la politica fiscale di distribuzione del reddito dall’alto verso il basso, in modo da creare la domanda in grado di consumare l’intero reddito prodotto al livello della piena occupazione. C’è anche da tenere presente che nell’economia capitalistica pura, non corretta, non sono riconosciuti bisogni e diritti sociali, essendo l’unico diritto ammesso e riconosciuto quello al profitto della proprietà privata del capitale.

                        La crisi degli anni ’70 ed il trionfo del “neoliberismo”

L’economia capitalistica governata politicamente dall’impostazione keynesiana, con gli anni ’70 entrava in una crisi profonda, caratterizzata dalla stagflazione. Per usare una previsione del 1942 di Kalecki contro Keynes, il segno del momento è stato manifestato dallo “sciopero del capitale”. In altre parole, gli investimenti privati si riducevano in misura consistente, riappariva quindi la disoccupazione, accompagnata da alta inflazione attribuita all’eccesso di spesa pubblica. In questo periodo prendeva gradatamente forza una profonda rivoluzione nella sfera culturale e nelle politiche economico-sociali.
Si passava dalla precedente concezione politica dell’economia ad una concezione economica della politica. Ciò ha determinato l’accettazione del capitalismo come ordine economico-sociale naturale, insorpassabile, senza alternative, con la rinuncia all’analisi critica circa la sua natura. E’ stato il momento in cui sono fiorite le teorie della fine della storia (Fukuiama). Da allora, la categoria teorica dominante non è stata più “capitalismo” ma “mercato”. Il problema economico su cui prosperano ancora le teorie “neoclassiche” è diventato quello dell’equilibrio di mercato, col consumatore come soggetto centrale. Il rapporto di produzione capitale/lavoro è stato sostituito ideologicamente da quello produttore-venditore e consumatore. Su tutti i piani, anche nell’etica sociale, è penetrato in misura sempre più pervasiva il più estremo individualismo, come traduzione pratica dell’individualismo metodologico della teoria economica “ortodossa”.
Sul piano dell’azione politica sono stati acriticamente accettati e praticati i precetti del neoliberismo. Si accusavano, e si accusano tuttora, le politiche economiche keynesiane di essere le responsabili della crisi in quanto, con l’eccesso di consumo del reddito prodotto, impediscono la formazione del risparmio necessario agli investimenti e quindi al rilancio degli stessi ed al riassorbimento della disoccupazione. Dalla politica della domanda si passava così alla politica dell’offerta, in cui è privilegiato il momento accumulativo, con la riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori, con l’aumento della produttività del lavoro, con l’introduzione di una sua sempre maggiore flessibilità. Il principio è che il taglio del costo della mano d’opera consente alle imprese di competere con successo su un mercato mondiale sempre più aperto e quindi di realizzare i profitti che permetteranno successivamente di allargare la base produttiva, tornando così ad assumere i lavoratori disoccupati.
Lo Stato è il problema non la soluzione (Reagan). Deve perciò ritirarsi dall’agire direttamente nella sfera economica, ma sostenerla dall’esterno con le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la deregolamentazione, la libertà di movimento dei capitali, in modo da affidare al mercato capitalistico la quota più alta possibile di risorse disponibili in quanto il suo meccanismo garantisce il massimo rendimento al loro impiego. Perciò dalla fiscalità precedente basata sulla distribuzione del reddito dall’alto verso il basso, si è passati ad una fiscalità invertita dal basso verso l’alto, con la riduzione delle aliquote massime, dato che sono i ricchi che risparmiano ed investono. Le banche centrali, infine, divorziavano dai governi (non obbligatoriamente però. Solo in Italia, Ciampi ha tradotto quella facoltà in obbligo rigido), nel senso di non finanziare più i loro deficit ed il conseguente debito pubblico, ma consegnando gli Stati ai mercati finanziari che la libertà di movimento dei capitali e la deregolamentazione hanno reso sempre più potenti.
Gli effetti sociali. Con questa controrivoluzione sociale, è finita l’epoca dei diritti sociali, gradatamente ridotti e svuotati di contenuto. Con la riduzione dei salari (diretti, indiretti e differiti) e le “riforme del mercato del lavoro” aumentava la disuguaglianza sociale con una ripartizione del reddito che ha spaccato la società fra una èlite privilegiata ed una massa sempre più consistente di cittadini a basso reddito, verso la quale continua tuttora a precipitare anche il ceto medio. Lo stesso diritto al lavoro è stato di fatto cancellato, in base al principio che è il mercato capitalistico che crea i posti di lavoro necessari alle imprese. Pertanto il lavoro deve recuperare la sua figura di puro fattore della produzione, da combinare con gli altri (materie prime e macchinari) nel processo produttivo, in modo da essere reso occupabile (è il senso della riforma Fornero), eliminando le tutele sindacali e legali che lo rendono rigido e non rispondente alle necessità imprenditoriali.
Il messaggio è chiaro: i lavoratori, nel loro interesse, devono rinunciare a diritti e salari oggi – perché altrimenti la disoccupazione aumenta ed i salari scenderanno ulteriormente - in modo da rilanciare in futuro produzione, occupazione e recupero salariale.

Ma cosa ci dice il riscontro empirico di questa dottrina? Ci dice che si tratta di una grossa truffa, purtroppo subita passivamente dalle sue vittime e dalle organizzazioni sindacali e politiche che le dovrebbero difendere. Alcuni grafici ce ne forniscono la prova.
Il primo mostra l’andamento del tasso di profitto e degli investimenti industriali in America del Nord, Europa e Giappone, dalla fine degli anni ’60 in poi. Vediamo che fino al decennio ’80 i profitti diminuiscono e con essi gli investimenti. Dal 1983/4/5, risulta invece che i profitti riprendono a crescere rapidamente e consistentemente, come effetto dell’attacco al lavoro di cui si è detto, mentre il tasso degli investimenti produttivi continua a scendere. Per quel che riguarda i salari, dal ’73 al 2007 si riduce la loro quota sul reddito nazionale: Francia –12,07, Germania – 15,90, Italia – 7,34, Giappone – 5,06, Spagna – 4,26, Regno Unito – 15,73, Usa – 10,30, altri 12 paesi europei – 11,37.
In sostanza, i profitti non sono stati indirizzati verso il settore produttivo e quindi a ricreare posti di lavoro, ma erano dirottati verso quello finanziario delle rendite e dei facili ed immediati guadagni, come dimostra un grafico sull’andamento della borsa di New York dal 1900 al 2008. Vi si nota che con gli anni ’80 la curva prende a salire vertiginosamente, ben al di sopra della crescita del PIL (durante la presidenza Clinton l’indice borsistico aumentava del 201% contro il 17% del PIL) mentre nei periodi precedenti l’indice grafico dei corsi si muoveva sulla linea orizzontale, pur con oscillazioni. Insomma la deflazione salariale è servita ad alimentare l’inflazione finanziaria, sostenuta anche dalla liquidità delle banche centrali, prevalentemente ora rivolta non al sostegno dell’economia “reale” ma a quello della finanza, come settore preminente dell’accumulazione capitalistica.
Che si tratti di una truffa ce lo dicono anche le teorie di due economisti “ortodossi”. Friedman sostiene che perché non ci sia inflazione è necessario un tasso di disoccupazione, il NAIRU (Not acceleration inflation rate of unemployment). L’altro è Blanchard, capo economista del FMI. Ci viene detto che nell’economia contemporanea il salario reale di equilibrio è quello offerto dalle imprese. Perché i lavoratori lo accettino, è necessario indebolire la loro capacità di resistenza e per questo occorre mantenere un certo livello di disoccupazione (tasso naturale di equilibrio di disoccupazione). In breve il messaggio chiaramente espresso afferma che il sistema capitalistico funziona solo se c’è disoccupazione. Conclusione: l’invito ai lavoratori a ridurre i salari e a rinunciare ai loro diritti per riavere in futuro occupazione e recupero salariale è dimostrato essere una grossa truffa, purtroppo subita senza reazione.

                               La crisi iniziata nel 2007/8 ed ancora in corso

Questa crisi non solo conferma le truffe precedentemente richiamate, ma ne aggiunge di nuove, scientemente programmate.
La crisi ha avuto il suo momento tragico nel settembre 2008, quando il sistema capitalistico crollava. L’economista Usa Stiglitz ha dichiarato: “il settembre nero è stato per l’economia di mercato capitalista l’equivalente della caduta del muro di Berlino per i regimi comunisti”. Il crollo però non è avvenuto. Perché? Perché lo Stato che era il problema, dagli stessi che lo dichiaravano tale veniva invocato per la salvezza del sistema. Una volta realizzata, allo Stato è stato richiesto di ritirarsi e lasciare di nuovo i meccanismi del mercato a sé stessi. Comunque il salvataggio c’è stato ed è consistito nel convertire le passività dei privati in debito pubblico, senza però che i governi scambiassero questo intervento con una nuova disciplina politica dell’economia capitalistica, come invece è avvenuto con la crisi del ’30. Anzi il problema politicamente assunto è oggi quello della copertura di questi debiti pubblici enormemente aumentati. In altre parole, si sono socializzate le perdite private per garantire il mantenimento dei profitti.
Di conseguenza si è messa in atto un’altra grossa truffa a danno dei cittadini e dei lavoratori in specie, con la quale la necessità di ridurre il debito pubblico è stata ed è usata come occasione per un’ulteriore diminuzione della spesa sociale, ulteriori privatizzazioni e riduzioni dei servizi pubblici, in breve per portare a compimento la demolizione dello Stato sociale e dei diritti del mondo del lavoro, come già nel 2008 suggeriva al governo di allora l’economista bocconiani Giavazzi.
Per sostenere questo indirizzo fino dal 2002 Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, e Giavazzi, docente alla Bocconi, hanno lanciato la teoria della austerità espansiva. Vi si sostiene che lo sviluppo economico e la crescita della ricchezza richiedono una politica di drastico calo della spesa pubblica, quasi esclusivamente sociale. A confermare questa teoria due economisti, Reinhart e Rogoff, hanno presentato i risultati di una loro ricerca empirica riguardante l’arco di tempo 1946-2009, in base alla quale i paesi con un debito pubblico superiore al 90% del PIL sono decresciuti dello 0,1% medio annuo. Da un controllo dei loro calcoli sono emerse però omissioni incredibili, eliminate le quali il risultato ottenuto è che anche i paesi con un debito pubblico superiore al 90% hanno avuto storicamente una crescita del 2,2% e non la decrescita dello 0,1%. E’ difficile pensare a semplici errori quando nel conteggio di Reinhart e Rogoff si sono esclusi Australia, Canada e Nuova Zelanda che nello stesso periodo di tempo registravano un elevato debito ed un elevato tasso di crescita; lasciati fuori dal calcolo arbitrariamente alcuni anni ed infine sui dati è stato applicato un peso diverso, per cui paesi con forte debito pubblico ed alta crescita hanno visto ridotta la loro influenza nella media generale. Si tratta, quindi, di un calcolo arrangiato per ottenere risultati conformi alla ideologia dell’austerità espansiva.
Nondimeno su questo indirizzo è basata la struttura dell’attuale Unione Europea, in particolare l’area dell’Euro, come pure vi si ispirano gli indirizzi della Commissione Europea e l’esercizio della politica monetaria da parte della Banca Centrale Europea (BCE). In relazione a quest’ultima basta ricordare la lettera di Trichet e Draghi dell’agosto del 2011 al nostro governo, nella quale si è tracciato un vero e proprio programma di politica economico-sociale incardinato sull’attacco (le cosiddette “riforme”) alle pensioni, al lavoro (“riforma” Fornero), alla spesa sociale e fatto proprio dal governo Monti.

                                  
                                                   L’Europa dell’Euro

A questo punto si impone un breve accenno alle truffe su cui sono basate le strutture economiche europee. Una prima truffa consiste nel trasferimento di sovranità effettiva a istituzioni tecnocratico-burocratiche, come la BCE e la Commissione che non rispondono ai cittadini europei del loro operato. Stanno, infatti, imponendo ai paesi in maggiori difficoltà economiche una politica di austerità nonostante i suoi risultati dimostrino l’effetto decrescita che essa provoca, rendendo così sempre più difficile il rimborso del loro debito pubblico.
Per sostenere questo indirizzo, Draghi, presidente della BCE, a marzo di quest’anno ha presentato ai capi di Stato e di governo europei due grafici con i quali ha inteso provare che nei paesi con forte deficit pubblico, e quindi col debito tendente a crescere, come sono i paesi mediterranei, i salari sono aumentati al disopra della produttività del lavoro. In quelli virtuosi, invece, c’è stata corrispondenza fra i due dati. In altre parole, la causa delle difficoltà in cui si trovano le economie in recessione ricade sui lavoratori, e non sulla struttura ed i meccanismi dell’Unione Europea e dell’Euro. Uno studioso di politica macro-economica, Andrew Watt, ha denunciato la truffa perpetrata da Draghi nei suoi conteggi, consistente nel fatto che i salari sono conteggiati al loro valore nominale, cioè senza decurtare l’inflazione, mentre la produttività è calcolata in termini reali, cioè depurata dell’inflazione. Si tratta cioè dell’errore elementare di mettere a confronto dati disomogenei. Scrive Watt: «o un punto chiave della politica dell’Unione europea ignora il corretto uso di fondamentali concetti economici, oppure, intenzionalmente, li utilizza con l’introduzione di un errore, per costringere i politici a seguire una politica certamente coerente con le loro preferenze ideologiche, ma in contrasto con la stabilità ed il recupero della zona Euro…»
Ma oltre a questa fedeltà ideologica a politiche economiche neoliberiste, occorre considerare anche gli elementi strutturali dell’Unione europea e dell’Euro. Per i nostri paesi l’Euro è moneta straniera, è una moneta senza Stato con Stati senza moneta. Con la perdita della sovranità monetaria la competizione economica si gioca allora tutta con l’attacco ai salari. Non a caso si cita spesso la Germania in cui la riforma del lavoro e dello Stato sociale del 2003 (“riforma” Hartz) ha ridotto drasticamente il salario, con quello relativo (differenza fra salario reale e produttività del lavoro) ai minimi storici e la conseguente necessità di collocare all’estero una quota altissima della propria produzione.
Il perno del sistema è l’art. 123 del Trattato di Lisbona (ex 105 e segg. di quello di Maastricht). Esso consegna l’emissione di moneta alla BCE, facendole divieto di finanziare le istituzioni politiche (Stati, Regioni, Land, Dipartimenti, Province, Comuni ecc.) mentre la liquidità monetaria deve essere indirizzata solo verso le istituzioni finanziarie private (banche, istituti finanziari vari ecc.). Avendo la moneta una funzione pubblica, il principio su cui sono costruite l’’UE e l’Euro innalza in tal modo gli interessi privati del capitale finanziario al rango di interessi collettivi della società, cui tutti gli altri devono subordinarsi. Ciò significa la morte della democrazia sostanziale, dato che non sono più le istituzioni politiche il luogo di definizione degli obiettivi comuni.
Sul piano sociale si riversano conseguenze devastanti, in quanto gli Stati vengono ad assumere una configurazione privatistica, nel senso che devono finanziare il loro debito pubblico rivolgendosi ai mercati finanziari e, quindi, sottostare alle loro condizioni come un privato qualsiasi. Non a caso l’area dell’Euro, che complessivamente è la più virtuosa del mondo per quel che riguarda il deficit di bilancio pubblico ed il debito pubblico, è quella dove si è scatenata la speculazione finanziaria sui titoli di Stato, imponendo interessi altissimi, in quanto la BCE finanzia a tassi agevolati le banche private che poi esigono dagli Stati più in difficoltà una remunerazione ben più alta, facendo in tal modo crescere il loro indebitamento.
Per chiudere occorre esaminare la truffa racchiusa nel patto di stabilità. Il suo principio costitutivo è che tutto ciò che è pubblico è male, mentre tutto ciò che privato è bene. Così si impongono parametri al debito pubblico, mentre si trascura del tutto il livello del debito privato. Pertanto se ne ricava che i paesi che rispettano i parametri del patto hanno l’economia stabile e sicura (indipendentemente dal loro debito privato), giacché i problemi provengono solo ed esclusivamente dal debito pubblico e quindi dall’eccesso di spesa pubblica.
Prima di tutto è da notare che i due parametri da non superare del 3% di deficit pubblico sul PIL e del 60% del debito pubblico sul PIL, non hanno nessuna motivazione economica. Sono i dati della situazione tedesca ai primi anni ’90 che vennero accolti per paura, soprattutto francese ed inglese, che, dopo l’unificazione, la Germania si sganciasse dai legami europei. Il PIL nominale tedesco era il 5%, col debito pubblico al 60% e quindi per mantenere quel livello, dato quel tasso di crescita, basta non fare oltrepassare al deficit la soglia del 3% (5% del 60%). I parametri sono nati così.
Il Trattato di Lisbona li ripropone, anche con maggiore severità, insieme all’Euro. Esso è stato presentato al nostro parlamento nell’autunno del 2008, che lo ha approvato senza approfondimento di nessun genere. Si è trattato di un’approvazione truffaldina, ideologica, in quanto l’esperienza, in particolare di quel periodo, invalidava il patto di stabilità ed il principio fondativo dell’Unione Europea per il quale i problemi economici sorgono nella sfera pubblica. Infatti, nel settembre del 2008 è crollato il sistema finanziario privato salvato proprio dalla mano pubblica. Cioè la crisi è esplosa per l’eccesso di speculazioni finanziarie e debiti privati, non a causa della spesa pubblica o dei salari già allora fortemente ridotti. Non solo, ma in Europa i paesi che sono crollati per primi sono stati l’Irlanda che aveva un attivo di bilancio del 2,5%, un debito pubblico del 25% del Pil e una spesa pubblica del 27% del Pil contro una media europea del 47%; e la Spagna con un attivo di bilancio dell’1%, e un debito pubblico de 36% del Pil. Insomma sono crollati subito gli unici due paesi che rispettavano il patto di stabilità, che evidentemente non stabilizza niente. Nonostante ciò il nostro parlamento, all’unanimità o quasi, ha approvato istituzioni di cui l’esperienza ha dimostrato tutta la debolezza, senza alcun approfondimento e riflessione critica, senza coinvolgimento democratico dei cittadini, come invece la situazione avrebbe richiesto e tuttora richiederebbe.

Conclusione

Il capitalismo è colpito dalla contraddizione fra l’istanza accumulativa e realizzativa.

A sua volta nell’UE entrano in conflitto l’austerità che ci si illude possa servire a rimborsare i debiti, mentre aggrava le posizioni debitorie, e il rilancio della crescita che richiede interventi pubblici più sostenuti, visto che da solo il mercato capitalistico non è in grado di superare le proprie difficoltà. Infine abbiamo la contraddizione monetaria di una moneta senza Stato e di Stati senza moneta.

Rimane comunque un interrogativo di fondo. A che cosa deve tendere la politica economica e sociale? A rimettere in moto il processo capitalistico secondo le sue attuali coordinate strutturali, oppure a rilanciare un progetto di nuova regolazione sociale del sistema, dopo la fine di quella keynesiana dei “Trenta gloriosi”? Ma questo capitalismo dà segni di disponibilità per un nuovo compromesso sociale?
Le risposte non sono facili data la complessità della situazione. Comunque un primo passo per affrontare e superare i problemi è quello di impostarli correttamente, tornando prima di tutto a praticare l’analisi critica dei processi capitalistici e delle condizioni della società attuale, per passare poi ad elaborare un progetto di intervento pubblico perché l’economia sia democraticamente regolamentata, in modo da essere condotta a svolgere la sua funzione propria di servizio per il benessere dei cittadini.


Roberto Bartoli














domenica 16 giugno 2013

La scuola pubblica

Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica 16 giugno 2013
Percorsi di memoria
l’impegno per la laicità continua
riflessioni di Carlo, Claudia, Gisella, Luisella, Maurizio
con Corrado Mauceri

1. Lettura dal Vangelo: Date a Cesare quel che è di Cesare
2. Sul filo della memoria…sostenitori da sempre della scuola pubblica
3. La Consulta per la Laicità e il lavoro fatto quest’anno
4. Il Referendum sulla scuola pubblica a Bologna. Alcune informazioni e alcuni articoli


1. Lettura dal Vangelo: Date a Cesare quel che è di Cesare

Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi.
Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno.
Dicci dunque il tuo parere: E' lecito o no pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro.
Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?».
Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
A queste parole rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono.
                                                                                                               [Matteo, 22, 1-22]

da capitolo 6 “Laicità” in Obbedienza e Libertà di Vito Mancuso

[..] Questa frase del Vangelo è all’origine della storia politica dell’occidente e della separazione fra sacro e profano, genesi del concetto moderno di laicità. L’apporto specifico di Gesù non consiste tanto nella sottolineatura della sovranità di Dio, già presente in ogni pagina della Bibbia; consiste piuttosto nella consapevolezza che la sovranità divina non è in concorrenza con la sovranità terrena perché si gioca su un piano del tutto diverso. Si tratta di una visione che consegna il mondo e la sua gestione (cioè la politica, il diritto, l’economia, la scienza, la cultura) alla laicità, cioè a quella dimensione della mente nella quale si procede con ragionamenti e conclusioni che devono essere validi per sé stessi, “etsi deus non daretur”, [come se Dio non ci fosse] scrisse Ugo Grozio nel 1665. 
Appare evidente quindi che i mille anni dello Stato Pontificio con i suoi eserciti, le sue monete, i suoi tribunali, le sue condanne, furono anzitutto un tradimento della distinzione evangelica.
Dante lo dichiara apertamente:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre
(Inferno, XIX, 115-117)




2. Sul filo della memoria… sostenitori da sempre della scuola pubblica

Da: “Isolotto la scuola e il Quartiere. 50 anni di storia”
Mauro Sbordoni così racconta:” ..Fra le varie sedi disponibili nella città avevo scelto l’Isolotto perché pensavo che in un quartiere popolare ci fosse più bisogno e anche “più attesa” di scuola e quindi che il lavoro di insegnante si potesse caricare di significati maggiori….Il breve viaggio di quel giorno oltre i limiti della città da me normalmente praticata si concluse alle “baracche verdi dell’Isolotto”…. Il complesso scolastico delle baracche era di una semplicità assoluta. Da un lato della strada i blocchi destinati alle classi maschili, dall’altro quelli destinati alle classi femminili. Ogni blocco aveva un vano d’ingresso con un tavolinetto, l’armadietto, le sedie destinate al custode di turno.. Su questo vano prospettavano quattro porte: due erano quelle delle aule, le altre due quelle dei gabinetti con lavandino… Le aule all’interno avevano… la cattedra, la lavagna, un armadietto, una o due carte geografiche. Una stufetta elettrica per riscaldare l’ambiente. Le baracche guardavano su un piazzaletto asfaltato che era il luogo del ritrovo comune e della ricreazione. Questi edifici scolastici (chiamiamoli così) erano agli antipodi rispetto alla tipologia edilizia delle scuole dell’epoca che risalivano tutte al periodo fascista… denotate da una funzione di rappresentanza con volumi rilevanti, grandi accessi con portoni austeri e ampie  scalinate, grandi finestrature. Tutto ciò connotava la funzione statale e ufficiale delle scuole come edifici “su”. Le baracche dell’Isolotto invece erano edifici “tra” le case del quartiere.. dalle aule…. si potevano sentire i discorsi che si facevano nelle abitazioni… si potevano udire i rumori che appartenevano in gran parte all’universo femminile… Io quindi, facendo il maestro, potevo sentire e vedere quanto accadeva intorno, ma potevo anche, mentre facevo scuola, essere ascoltato e visto dalle finestre degli edifici prospicienti…. Tutto questo a me piaceva molto. Perché mi dava l’idea di essere un maestro “tra” e non un maestro “su”…

L’inaugurazione della nuova scuola della Montagnola  aprì un primo processo di discontinuità rispetto alle baracche…. Essa si poneva “fuori” e “al di sopra” rispetto alla trama delle abitazioni….. era su un abbozzo di collinetta…. al centro di un giardino; le aule si presentavano come schiere di casette con porte a vetri sui giardini…. L’interno era a configurazione stellare con ampi atrii su cui si affacciavano aule non troppo grandi, suggerendo così l’idea di classi di non oltre 20 alunni e l’utilizzo degli atrii per attività comuni tra le classi e per l’allestimento di angoli strutturati per il lavoro a piccoli gruppi…… insomma una struttura scolastica che suggeriva, quasi imponeva, una didattica e un tessuto di relazioni interne ed esterne del tutto nuovi….

Scuole: perché il decennio che va dal ’65 al ’75 è il decennio della crescita.. e della costruzione di scuole, costruzione rivendicata dai movimenti di base, dai comitati di quartiere…
La costruzione all’Isolotto della Scuola Media, della Scuola Elementare di Via dei Bassi, della scuola materna della Montagnola pose le condizioni per la creazione di un vero e proprio movimento per la scuola: si posero allora le questioni della creazione di una scuola media veramente unificata e unificante, della continuità fra scuola elementare e scuola media, fra scuola dell’infanzia e scuola elementare, fra scuole e territorio…

Franco Quercioli:” Ventidue anni, tanta voglia di lavorare e il gusto per l’avventura Fu così che scelsi l’Isolotto. Mi piacque il villaggio Gescal, le sue stradine e le piazzette interne, le piante e gli alberi; un posto dove i ragazzi giocavano per la strada e la sera d’estate la gente scendeva fuori con la seggiola a prendere il fresco. E poi la chiesa, Don Mazzi e Don Gomiti: due facce di uomini veri e non da prete, uno sguardo che mi dava il senso del futuro, il futuro che volevo abitare….. Nelle aule delle baracche ci si stava stretti. Il pavimento fatto di legno rintronava sotto i piedi degli scolari…

Era una mattina nebbiosa del 1969, uno di quei novembre umidi e diacci che a uscir di casa ci vuole coraggio… A tirar su la tenda ci volle poco e io ci attaccai sopra un cartello bianco, grande, che si vedesse bene da lontano: ”Erigenda scuola materna”…. E poi altri cartelli che spiegavano l’occupazione della Montagnola che la gente del quartiere aveva deciso la sera prima in assemblea. “No al dancing, sì alla scuola materna, assessore ripensaci, non alla speculazione edilizia”… Qualcuno portò le sedie pieghevoli delle baracche, qualcuno pensò agli spaghetti. Il vino non ci mancò e neppure il caffè a bollore…… Tre anni dopo i bambini dell’Isolotto andarono alla scuola materna della Montagnola……

Ancora negli anni 70: Eliminare le radici della selezione. Lettera degli insegnanti elementari e medi dell’Isolotto alla popolazione:
“Gli insegnanti della scuola elementare e media dell’Isolotto dopo aver discusso in una serie di riunioni il problema della selezione (bocciature, ripetenze, classi differenziali..) e del recupero scolastico, esprimono la convinzione che fino dalla scuola dell’obbligo vadano eliminate le radici della selezione per cui si discriminano gli alunni in base al merito scolastico ricorrendo sistematicamente alle bocciature e alle classi differenziali senza riuscire ad incidere sulla loro formazione intellettuale. Pensiamo anche che non serve a niente promuovere tutti; in tal caso il problema viene solo rimandato: dalla scuola elementare alla scuola media, alle scuole superiori e ai luoghi di lavoro dove i ragazzi pagheranno duramente la loro inferiorità culturale. La promozione quindi non ha senso se non si eliminano contemporaneamente le cause dell’insufficienza culturale. Solo eliminando le disuguaglianze culturali tra gli alunni che sono specchio delle disuguaglianze economiche e sociali, è possibile creare una autentica comunità scolastica dove si affermino quei valori di giustizia e di uguaglianza che non sono presenti in questo tipo di società…..”
Seguono una serie di proposte concrete perché le cose comincino a cambiare: unità di insegnamento, libertà di sperimentazione, istituzione di biblioteche e laboratori, 20 alunni per classe, corsi di recupero permanenti, ecc…

3. La Consulta per la Laicità di Firenze e il lavoro fatto quest’anno

3.1 Scheda informativa

Data di nascita: la  Consulta per la Laicità del Comune di Firenze è nata il 16.02.2009.

Scopo (dall’art.2 del Regolamento):
1. La Consulta per la Laicità è un organismo di partecipazione ed ha per scopo il perseguimento delle seguenti finalità:
·       raccolta di documentazione, dati statistici, pubblicazioni relativa ai diversi Movimenti, Associazioni, Comitati, Gruppi onde averne un più esauriente quadro conoscitivo;
·       organizzazione di incontri e seminari su grandi temi del dibattito civile quali scuola, giustizia, lavoro, sanità, diritti individuali;
·       promozione del principio di laicità relativamente a problemi etici, bioetici, politici, economici, demografici;
·       promozione di iniziative a favore della pace nella giustizia e per la tutela dei diritti civili.
2. La Consulta potrà trasmettere alla Amministrazione, oltre al rendiconto della propria attività, valutazioni e proposte relative a tematiche di sua pertinenza.


Presidente: Leonardo Bieber
Vice presidente: Picchi Debora (rappresentante dell’Associazione ”Libere Tutte”)

Associazioni che fanno parte della Consulta: Libere tutte; Laboratorio Laicità; Azione Gay Lesbica; UAAR;  Per la Scuola della Repubblica; Sinistra per la Costituzione; Il Giardino dei Ciliegi ; ARCI Coord. Genitori DemocraticiComitato per la Difesa della Costituzione; Fratellanza FiorentinaPer una Sinistra Unita e Plurale; Libera uscita; Comunità dell’Isolotto; Il Filo Rosso; Per un’ altra Città.

3.2 Adesione della Comunità dell’Isolotto alla Consulta per la Laicità - aprile 2009
La Comunità dell’Isolotto ha aderito alla Consulta per la Laicità nell’aprile 2009. Questo il comunicato dell’Assemblea nella quale si è discussa e decisa questa adesione.

Assemblea settimanale della Comunità dell'Isolotto
L'incontro comunitario che si svolgerà domenica 5 aprile alle ore 10,30 alle Baracche dell'Isolotto via Aceri 1 Firenze sarà dedicato a socializzare il senso e l'importanza della Consulta per la laicità del Comune di Firenze. Sarà presente Marco Ricca, consigliere comunale, promotore della Consulta. Si parlerà anche della mozione per un dignitoso funerale civile nell'ambito dell'intero Comune di Firenze, anch'essa promossa da Ricca insieme a Giuseppe D'Eugenio presidente del Q4.
La Consulta per la Laicità  del Comune di Firenze é già realtà: il suo regolamento approvato di recente dal Consiglio Comunale é esecutivo. Si tratta ora di passare alla fase operativa che ha come premessa l'informazione  e l'invito a tutte le Associazioni, Movimenti, Circoli ecc. di carattere laico che vorranno partecipare come soggetti attivi. La Comunità è ovviamente interessata a  questa  iniziativa.

3.3 Intervento di Corrado Mauceri della Consulta

3.4 L’intervento della Consulta per la laicità del Comune di Firenze a sostegno del referendum di Bologna per il diritto di tutti/e alla scuola pubblica.
Il 26 maggio p.v. si svolgerà a Bologna il Referendum consultivo promosso dal “Comitato Art. 33” per rivendicare il diritto di tutti i cittadini alla scuola pubblica dell’infanzia fino  all’istruzione secondaria superiore.
La Costituzione difatti afferma all’art. 33: La Repubblica detta la norme generali dell’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Lo stesso art. 33 nel prevedere il diritto di Enti e privati di istituire proprie scuole, afferma “senza oneri per lo Stato”.
La Repubblica quindi ha l’obbligo costituzionale di istituire scuole pubbliche per tutti e  non può, come invece avviene a Bologna con la complicità  del Comune di Bologna, a causa dell’insufficienza di scuole pubbliche dell’infanzia, costringere i cittadini a rivolgersi alle scuole private, in gran parte confessionali; né il Comune e/o lo Stato possono, al fine di contenere la spesa pubblica, fare convenzioni con le scuole private, erogando ad esse contributi pubblici e costringendo le famiglie a iscrivere i loro figli nelle scuole private.
Le scuole private, peraltro in gran parte confessionali, hanno il diritto costituzionale  di essere scuole di  orientamento anche religioso e non sono tenute a garantire i principi di laicità e di pluralismo culturale che la scuola pubblica deve invece garantire.
La Consulta per la laicità  del Comune di Firenze manifesta anche la propria preoccupazione per le dichiarazioni del Presidente della CEI, Cardinale Bagnasco che, in palese violazione della Costituzione, rivendica per le scuole private un ulteriore incremento dei finanziamenti pubblici rispetto a quello già illegittimamente sono erogato.
La Consulta per la laicità del Comune di Firenze ribadisce con fermezza che tutte le risorse pubbliche devono essere utilizzate per  la scuola pubblica ed auspica un forte successo dell’iniziativa  referendaria del Comitato Bolognese per l’art. 33 e per la difesa della Costituzione ed invita il Consiglio Comunale di  Firenze   farsi promotore di tutte le opportune iniziative per il pieno sviluppo della scuola pubblica e per il rispetto della Costituzione.

4. Il Referendum sulla scuola pubblica a Bologna. Alcune informazioni e alcuni articoli

Il 26 maggio 2013 si è svolto a Bologna un Referendum consultivo sulla destinazione di risorse finanziarie alle scuole dell’infanzia a gestione privata da parte dell’Amministrazione comunale.

BREVE STORIA
·       La proposta di referendum presentata dal Comitato referendario “Nuovo Comitato Articolo 33″ è stata giudicata ammissibile dai garanti del Comune il 24 luglio 2012.
·       Perché il referendum potesse essere indetto, era necessario raccogliere almeno 9.000 firme in 3 mesi, ne sono state raccolte 13.500, il 50% in più del necessario.
·       Per favorire la partecipazione e ridurre i costi il Comitato promotore ha chiesto che il Referendum si svolgesse in concomitanza delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, ma il sindaco non ha accolto questa istanza e ha indetto il referendum per il 26 maggio 2013.
·       Il comitato ha chiesto un numero e una dislocazione sul territorio di seggi tale da assicurare la maggior partecipazione possibile ma il sindaco ha individuato solo 199 seggi, lasciando scoperte alcune zone.

IL COMITATO PROMOTORE: è composto da 400 cittadini e da un vasto insieme di soggetti collettivi tra cui[1]: Assemblea Genitori e Insegnanti di Bologna e provincia; Associazione Nuovamente; Associazione Per la Sinistra Bologna; Chiesa metodista Bologna; Circolo UAAR Bologna; Cobas Scuola Bologna; Comitato bolognese Scuola e Costituzione; Comitato genitori nidi e materne; Coordinamento precari scuola Bologna; CUB Bologna; Federazione Lavoratori Conoscenza – CGIL; ; FIOM Bologna; Rete Laica Bologna; Scuola Infanzia LiberA Tutti; USB Bologna.

IL QUESITO: Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private”.

PERCHE’ IL COMITATO HA VOLUTO QUESTO REFERENDUM
·       Per la scuola pubblica. E’ la scuola di tutti, laica e gratuita. Forma il cittadino democratico. Subisce tagli feroci. Intanto i finanziamenti alla scuola privata paritaria crescono o rimangono inalterati.
·       Per i diritti. Quest’anno a Bologna più di 300 bambini sono rimasti esclusi dalla scuola pubblica, che è un diritto costituzionale, per mancanza di posti e risorse. Saranno costretti a frequentare una scuola dell’infanzia privata, a pagarne la retta e a sottoscrivere un progetto educativo che non condividono (nel 99% dei casi confessionale). E l’anno prossimo quanti saranno gli esclusi dalla scuola pubblica?
·       Per la democrazia. Bologna è stata un modello della scuola dell’infanzia pubblica. E oggi? Il diritto alla scuola pubblica è una questione di democrazia. Riorientare la bussola della politica spetta ai cittadini. Il tuo voto è una scelta di democrazia e di partecipazione.
Il Comune di Bologna ha iniziato a destinare risorse economiche alla scuola comunale per l’infanzia privata nel 1995 destinando 295.000 euro, nel 2011 tali risorse erano quadruplicate arrivando a 1.188.585 euro (Grafico 1).

Graf.1–Finanziamenti comunali alla scuola dell’infanzia privata. Comune di Bologna 1994-2011
Fonte 1: Comitato Referendario, 2013

Le scuole private non ricevono finanziamenti solo dal Comune ma anche da Stato e Regioni. Il Grafico 2 mostra l’andamento dei finanziamenti complessivi dati alla scuola dell’infanzia privata di Bologna.

Grafico 2 - Andamento dei Finanziamenti comunali destinati alla scuola dell’infanzia privata. Comune di Bologna – 1994 - 2011
Fonte 2: Comitato Referendario, 2013

RISULTATI: hanno espresso un voto valido 85.934 persone (poco meno del 30% degli aventi diritto al voto). Il 59% di essi ha votato l’Opzione A esprimendo la volontà che le risorse finanziarie comunali siano destinate alle scuole comunali e statali; mentre il 41% ha votato l’Opzione B esprimendo la volontà che tali risorse siano destinate come finora alle scuole paritarie a gestione privata.



4.1 L’Amaca di Michele Serra – La Repubblica 25 maggio 2013













4.2 “La buona azione di Bologna”  di Stefano Rodotà - Il Manifesto 5 maggio 2013
Si svolge domenica 26 maggio a Bologna un referendum sul finanziamento alla scuola privata importante, difficile e rischioso. Ma la politica, quella vera, è anche, e in molti casi soprattutto, proprio capacità di assumere rischi quando sono in questione principi, quando bisogna cercar di promuovere mutamenti nella società e nel sistema politico-istituzionale. Quel che dovrebbe sorprendere, allora, non è che qualcuno abbia avuto l'ardire di promuovere un referendum, ma che questo referendum si debba fare. E oggi, in presenza di iniziative politiche a dir poco azzardate, è più che mai necessario riprendere il filo, spezzato in questi anni, della politica costituzionale e della legalità che essa esprime.
L'oggetto specifico è quello ricordato - risorse pubbliche a beneficio di scuole private. Per giustificare questa scelta, a Bologna, e non solo, si adoperano argomenti di opportunità e ritornano le contorsioni giuridiche alle quali da anni si ricorre per aggirare l'articolo 33 della Costituzione. Ma questo, davvero, è un punto non negoziabile, per almeno due ragioni. La prima riguarda la necessità di rispettare la chiarissima lettera della norma costituzionale che parla di una scuola privata istituita «senza oneri per lo Stato». Ma bisogna anche ricordare - e questa è la seconda considerazione - che è sempre la Costituzione a prevedere che lo Stato debba istituire «scuole statali per tutti gli ordini e gradi». In tempi di crisi, questa norma dovrebbe almeno imporre che le scarse risorse disponibili siano in maniera assolutamente prioritaria destinate alla scuola pubblica in modo di garantirne la massima funzionalità possibile. Non a caso, Piero Calamandrei definì la scuola pubblica «organo costituzionale», individuando la linea dalla quale non può allontanarsi nessuna istituzione dello Stato.
Il cardinale Bagnasco ha dichiarato che quel finanziamento permette allo Stato di risparmiare. Non comprende che non siamo di fronte a una questione contabile. Si tratta della qualità dell'azione pubblica, del modo in cui lo Stato adempie ai suoi doveri nei confronti dei cittadini. La consapevolezza di questi doveri si è assai affievolita in questi anni, e le conseguenze di questa deriva sono davanti a noi. È ottima cosa, allora, che siano proprio i cittadini a ricordarsene e a chiedere con un referendum che la legalità costituzionale venga onorata. I cittadini bolognesi hanno oggi la possibilità di far valere un principio, al di là delle convenienze. E, comunque si concluda questa vicenda, è stata fatta una buona azione civile, destinata a lasciare un segno nelle coscienze.
Buon voto a tutte e a tutti.

4.3 “Così la scuola ha vinto tre volte” di Antonia Sani,  Il Manifesto 29 maggio 2013

Il referendum ha rilanciato l'art. 33 della Costituzione La vittoria conseguita dal comitato referendario della città di Bologna è netta. Il 59% dei votanti contro il 37%, scegliendo l'opzione A, ha detto «no» al finanziamento del comune alle scuole dell'Infanzia private paritarie.
È un risultato di grandissima portata almeno per 3 ragioni:
          1) la prima è di ordine politico. La discesa in campo di uno schieramento che riuniva Pd, Pdl, Lega Nord, chiesa cattolica, animato dal sindaco e addirittura dall' ex presidente del consiglio, il bolognese Romano Prodi, non ha commosso la città, né sotto il profilo della chiamata al voto, né sotto quello della scelta «obbediente» dell'opzione B. Bologna ha rivendicato la sua tradizione di città democratica, impegnata nel sociale. Questa volta a fianco di quei genitori che semplicemente chiedevano ciò che la Costituzione ha loro garantito: una scuola pubblica per i loro bambini e bambine;
          2) la seconda ragione è l'incoraggiamento a noi tutti a non abbandonare la lotta, anche quando da Davide si tratta si affrontare un Golia, un Golia che oggi è rappresentato dall'indifferenza, dalla rassegnazione, da un'opinione pubblica trascinata verso chi è decretato «vincente» dai più diffusi mezzi di informazione. Il comitato referendario «Articolo 33» ci ha dimostrato che con l'intelligenza, la tenacia, la certezza di combattere per «la cosa giusta» si può sconfiggere Golia.
          3) ultima ragione, ma per noi la più importante, è la conferma di quel «senza oneri per lo stato» voluto dall'Assemblea Costituente in quell'aprile del 1947. Certo, neppure una vittoria dell'opzione B avrebbe potuto scalfire il dettato costituzionale ma importantissima è stata la sua riconferma popolare. Significa che si è riconosciuto ancora una volta che la Scuola dell'Infanzia è «scuola» e non «servizio» e come tale deve essere finanziata senza concessioni a un sistema integrato che ne nega il pluralismo.
Quando diciamo «Bologna riguarda l'Italia» intendiamo dirci disponibili a sostenere un fronte su tutte le analoghe situazioni che colpiscono i genitori nei diversi territori, affinché il dettato costituzionale venga finalmente rispettato, e la legge 62/2000 istitutiva del sistema nazionale integrato venga finalmente denunciata per ciò che rappresenta: un attacco all'articolo 33 della Costituzione. Alle associazioni, agli amici ai compagni e alle compagne di Bologna va il più vivo ringraziamento e la solidarietà dell'associazione nazionale «Per la Scuola della Repubblica».

4.4      A Bologna si riparte da 50.000 di  Wu Ming (gruppo di scrittura collettiva) 27.5.2013

E così l’esercito di Serse è stato battuto. Cinquantamila bolognesi  (59%) hanno risposto alla chiamata dei referendari e hanno votato A, contro circa 35.000 che hanno votato B (41%).
 In totale poco più del 28% degli elettori. Una percentuale che a botta calda consente ai sostenitori della B, il Partito Democratico in testa a tutti, di provare a sminuire la valenza del voto e di spingersi a
dire che “si è trattato di una battaglia ideologica che non interessa la gran parte dei cittadini. I bolognesi hanno capito che la sussidiarietà è la chiave di volta laddove lo Stato non riesce ad
arrivare” (E. Patriarca). Come a dire: non è successo niente, tireremo diritto.
Invece qualcosa è successo, per quanto possano fare i finti tonti. Il PD infatti non ha sostenuto la linea dell’astensione, ha fatto l’opposto, ha mosso le corazzate e l’artiglieria pesante per mandare
la gente a votare B. Si è speso il Sindaco in prima persona (che ha mandato una lettera a casa dei bolognesi per invitarli a votare B, e ha fatto un tour propagandistico per tutti i quartieri), gli
assessori, il partito locale, i parlamentari da Roma… Ai quali si è aggiunta la propaganda nelle parrocchie, quella del PdL, della Lega Nord, di Scelta Civica, della CISL, e gli endorsement di Bagnasco, di Prodi, di Renzi, di due ministri della repubblica, più le dichiarazioni di Ascom, Unindustria e CNA.
Questa santa alleanza contro i perfidi referendari ideologici è riuscita a muovere soltanto 35.000 persone (incluse le suore, le prime a presentarsi ai seggi ieri mattina). Significa che una buona parte dell’elettorato di quei partiti e dei fedeli cattolici ha disobbedito agli ordini di scuderia ed è rimasta a casa oppure ha votato A. Invece un comitato di trenta volontari, appoggiato solo da un paio di partiti minori e qualche categoria sindacale, che ha raccolto l’appoggio di tutti gli ultimi intellettuali e artisti di sinistra rimasti in Italia, ha portato a votare quindicimila persone in più.
Questo dato politico è il più interessante e pesante. Da un lato perché significa che il tema della riaffermazione del primato della scuola pubblica rompe gli schieramenti, i vincoli d’obbedienza, le usuratissime cinghie di trasmissione, e allude a una sinistra reale che potrebbe e dovrebbe ricostruirsi a partire da alcuni temi fondativi. Dall’altro lato perché se con le percentuali si può giocare al ribasso o al rialzo, invece con i numeri assoluti c’è poco da fare, vanno presi come sono. E cinquantamila sono esattamente la metà dei voti che Virginio Merola ha preso nel 2011, quando è stato eletto sindaco. Se questa giunta e questa classe dirigente hanno intenzione di tirare diritto, come traspare dalle prime dichiarazioni, dovranno considerare l’eventualità concreta che la marcia, scandita a ogni passo dall’incertezza e dalla paura, termini con una disfatta.
Le notizie che giungono dalla capitale non saranno di conforto per lorsignori: un altro mix micidiale di scarsa affluenza e sconfitta; disgusto per gli schieramenti politici e per qualcuno più che per altri.
La risposta a tutto questo è quella di Bologna: organizzazione dal basso e ingaggio della cittadinanza sui temi importanti, sulle scelte di indirizzo. La dimostrazione che “si può fare”.
Dunque oggi si riparte da qui. Da quota cinquantamila. Avanti.

4.5 Miracolo a Bologna: Davide batte Golia - di Paolo Flores d’Arcais – Micromega 28.5.2013
Domenica è avvenuto un miracolo, ma l’establishment ha ordinato di battezzarlo “flop” e i media della disinformazione unica sono scattati sull’attenti e hanno intonato un pronto “obbedisco!”. Il miracolo è avvenuto a Bologna. Da una parte una trentina di cittadini, senza risorse se non una grande passione civile e l’amore adamantino per la Costituzione repubblicana. Dall’altra tutti i poteri della città, ma proprio TUTTI: dal cardinal Caffarra al sindaco Pd, dalla confindustria alle coop, da Comunione e liberazione alla Lega, fino alla ciliegina di Romano Prodi. Le parrocchie scatenate come ai tempi della guerra fredda, di Gedda e delle madonne pellegrine. Le sezioni Pd con l’ordine tassativo di mobilitarsi (l’ha fatto solo la nomenklatura di partito). I media locali allineati e intruppati come una falange macedone.
Eppure i laici-laici hanno vinto con un perentorio 59% contro il 41% del Potere unificato clerico-partitocratico-affaristico-mediatico. Davide contro Golia, ma un Davide che non aveva neppure la fionda. Un miracolo. Che sarebbe un flop perché comunque a votare è andato meno di un cittadino su tre. Non si rendono conto, i megafoni e i lacchè dell’establishment, che si danno la zappa sui piedi? Gli strumenti per una mobilitazione di massa ai seggi li avevano solo il cardinale e il sindaco, ma se con tutto l’enorme dispendio di mezzi materiali e di grancassa “giornalistica” sono riusciti a portare alle urne solo 35 mila pecorelle obbedienti, suona davvero ridicolo e risibile che giudichino un flop i cinquantamila elettori che sono stati convinti da un pugno di cittadini liberopensanti e del tutto privi di mezzi e di potere. A Roma questo si chiama “conzolasse co’ l’ajetto”, cari signori della Curia e del Partito.
Naturalmente il comune, in mano al Pd (Partito doroteo), andrà avanti come se nulla fosse accaduto, continuerà a beneficiare la scuola privata sottraendo risorse a quella pubblica, toglierà cioè alla scuola di tutti per regalare soldi di tutti alla scuola di pochi e “dei preti”, calpestando il risultato del referendum (tanto era consultivo!) e irridendo alla Costituzione, che le scuole private le tollera solo se “senza oneri per lo Stato”. E’ allora sperabile che il comitato “articolo 33” non si sciolga ma rilanci, e anzi si trasformi in una organizzazione di più generale “cittadinanza attiva”, chieda le elezioni comunali anticipate e vi partecipi. Il non-voto in tutte le città, ormai di dimensioni gigantesche, sottolinea il divorzio dai partiti esistenti e l’insufficienza del solo M5S.

4.6 COMUNICATO STAMPA di SEL – da La Repubblica 27 Maggio 2013
Mauro Romanelli (Sel): "Ora una svolta anche in Toscana. I soldi devono essere usati tutti per la scuola pubblica, mentre anche nella nostra Regione le materne private ricevono oltre 2 milioni di euro di contributi diretti"
Il risultato di Bologna con la vittoria del referendum da parte dei cittadini contrari al finanziamento alle scuole materne private, deve far riflettere anche la Giunta Regionale Toscana, e produrre un'inversione di tendenza: anche qui troppe risorse vengono distolte all'Istruzione Pubblica, a favore delle scuole private" - è il commento del Consigliere Regionale di Sinistra Ecologia e Libertà Mauro Romanelli.
In Toscana, ad esempio, le scuole materne private paritarie ricevono dalla Regione 2 milioni di euro di contributi diretti da parte dell'Amministrazione Regionale, mentre ulteriori 450mila euro vengono ogni anno versati alla principale Associazione di Scuole Materne dell'Infanzia, la Fism, di impostazione cattolica, per progetti di coordinamento pedagogico-didattico e di messa in rete delle scuole private (!!!).
"Credo che tutto questo debba essere rivisto e che la Giunta Toscana debba concentrare le risorse sulle scuole pubbliche. Certamente da tempo la nostra Regione copre con svariati milioni di euro le classi di scuola materna statale che lo Stato ha lasciato scoperte, arrivando quest'anno ad erogare 6 milioni di euro, una cifra molto rilevante, a questo scopo. Così come va altrettanto riconosciuto l'impegno della Regione, quasi 2 milioni di euro annui, per le scuole materne comunali. Non possiamo quindi lamentarci, nel complesso, per l'impegno della nostra Giunta su questo tema: esso è infatti assai rilevante e di molto superiore a quanto realizzato in altre Regioni. Ma oggi il risultato del Referendum bolognese ci chiama a fare di più, e a rispettare integralmente lo spirito del Dettato Costituzionale: le scuole private possono esistere, ma SENZA ONERI per lo Stato".


4.7 “La scuola al centro della politica costituzionale” di S.Rodotà La Repubblica 10.6.2013

Dal mondo della scuola, da Bologna e da Napoli, arrivano indicazioni significative per stabilire quale debba essere oggi la politica costituzionale, e che mettono in evidenza l’importanza delle iniziative dei cittadini e l’illegittimità di vincoli economici che possono pregiudicare i diritti fondamentali delle persone. Grandi questioni di principio entrano così, con la forza della concretezza, in una discussione costituzionale da troppo tempo confinata in astratte e rischiose operazioni di “ingegneria istituzionale”, con scarsa considerazione dei principi da rispettare e disattenzione crescente per le essenziali questioni dei diritti.
È ormai ben noto che un gruppo di cittadini bolognesi aveva promosso un referendum sul finanziamento pubblico alle scuole materne private, ricordando che l’articolo 33 della Costituzione riconosce il diritto dei privati “di istituire scuole senza oneri per lo Stato”. Veniva così messa in discussione una linea di politica scolastica nazionale e locale costruita negli anni da maggioranze diverse, che aveva aggirato la norma costituzionale riconoscendo ai privati cospicui finanziamenti.
Contro il referendum si era costituito un massiccio schieramento che vedeva insieme il Pd, il Pdl e la Curia. Sembrava così che il risultato fosse scontato. E invece contro il finanziamento si è pronunciato il 58,8% dei votanti, smentendo non solo le previsioni, ma pure l’accusa secondo la quale si trattava di una iniziativa estremista e minoritaria, che metteva in discussione il diritto dei bambini appartenenti alle famiglie più svantaggiate. Se, infatti, si analizzano i risultati del voto quartiere per quartiere, emerge con nettezza il fatto che il sostegno al referendum è venuto proprio dalle zone più popolari dov’è più forte l’elettorato di sinistra che, dunque, non si è allineato alla posizione ufficiale del Pd. Si è cercato di sminuire il significato del referendum insistendo sulla bassa affluenza alle urne (28,7%). Argomento debole, soprattutto in tempi di astensionismo generalizzato.
Ma il risultato bolognese si presta a riflessioni di carattere generale.
La prima riguarda la fedeltà alla Costituzione e la voglia delle persone di impegnarsi in iniziative che difendono principi: e questa è una indicazione importante in una fase in cui si vuole avviare una stagione di riforme che rischia di mettere in discussione proprio aspetti fondamentali del testo costituzionale.
La seconda si riferisce alla necessità di rispettare il risultato del voto referendario, anche se, come nel caso di Bologna, non ha valore vincolante. E, infatti, personalità eminenti del mondo cattolico, che si erano schierate a favore del mantenimento del finanziamento ai privati, hanno responsabilmente sottolineato la necessità di tenere comunque conto della volontà popolare.
La questione del rispetto dei risultati referendari non è nuova. Da due anni, da quando ventisette milioni di elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua, è in corso una guerriglia che vede istituzioni pubbliche impegnate nell’illegittimo tentativo di vanificare il risultato di quel voto. E negli ultimi tempi si è ripetutamente insistito sul fatto che, nel 1993, il 90% degli elettori votò a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, poi mantenuto in vita con diversi artifizi. Sembra, invece, essersi perduta la memoria di quei sedici milioni di cittadini che nel 2006, votando contro la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza berlusconiana l’anno precedente, confermarono l’impianto della Costituzione, opponendosi a forzature che avrebbero accentuato i rischi della concentrazione autoritaria del potere. Vale il richiamo al referendum sul finanziamento ai partiti e non quello sulla fedeltà alla Costituzione? Due pesi e due misure? Certo, i risultati referendari non escludono la possibilità di riprendere in esame i temi affrontati e nella mozione appena approvata dalle Camere sull’iter delle riforme costituzionali si dice esplicitamente che un referendum sarà possibile. Ma, istituzionalmente e politicamente, è preoccupante la disattenzione per una opinione pubblica che ha ripetutamente mostrato un orientamento ostile alle semplificazioni autoritarie del sistema costituzionale e la sua attenzione ai principi che lo fondano.

Principi che non possono rimanere sulla carta e che, quindi, non possono essere messi tra parentesi con l’argomento dei vincoli imposti dalla crisi economica. È questo il grande significato di una decisione della Corte dei conti che ha giudicato legittima una decisione del Comune di Napoli anch’essa legata al funzionamento delle scuole. Che cosa aveva fatto il Comune? Aveva approvato una delibera che consentiva la nomina degli insegnanti necessari per il funzionamento delle scuole dell’infanzia e degli asili nido, delibera che formalmente si poneva in contrasto con i divieti imposti dal patto di stabilità ai Comuni con pesanti buchi nel bilancio. La questione era finita davanti alla sezione campana della Corte dei conti, che doveva appunto accertare la legittimità dell’iniziativa presa dagli amministratori napoletani. L’argomentazione del Procuratore regionale è molto netta: “I pur fortissimi diritti di contenuto economico e finanziario posti a salvaguardia dell’integrità dei bilanci pubblici non possono incidere sui diritti fondamentali della persona”. E qui le persone sono le bambine e i bambini che sarebbero stati privati proprio della possibilità di accedere ad un servizio essenziale, come quello scolastico, con evidente violazione del diritto all’istruzione, elemento costitutivo del diritto costituzionale al libero sviluppo della personalità. Nella delibera del Comune, peraltro, si affrontava anche il tema della riduzione di altre spese, non altrettanto indispensabili, per sostenere quelle relative all’assunzione degli insegnanti. Sulla base di una dettagliata analisi delle norme vigenti e degli orientamenti delle corti italiane e europee viene così messa radicalmente in discussione la subordinazione dei diritti fondamentali alla logica economica, che sembra essere divenuta l’unica norma di riferimento del tempo che viviamo. Si blocca così una deriva che ha portato a vere e proprie sospensioni delle garanzie costituzionali. Il caso napoletano dovrebbe allora imporre un riflessione generale ad una politica disattenta e che sembra non più attrezzata per affrontare questioni di tale portata. Che però non possono essere eluse, perché intorno ad esse si costruisce quella politica costituzionale di cui sempre più si avverte il bisogno.
La scuola pubblica, scriveva Piero Calamandrei, è “organo costituzionale”. Quella definizione torna alla mente perché da lì, dal luogo dove principi fondativi e formazione civile s’incontrano, viene oggi una spinta forte per uscire dalla regressione nella quale stiamo sprofondando e per indicare alla politica l’orizzonte largo nel quale deve muoversi per recuperare credito e nobiltà.



4.8 Comunicato del Tavolo regionale per la scuola statale e dal Laboratorio Laicità di Firenze
     La bella lezione di Bologna e noi.

Pare quasi non esserci stato il referendum. Un silenzio e una censura fin troppo spiegabile hanno oscurato questa espressione di dissenso così radicale da farla apparire simile al fastidio di una sbucciatura del ginocchio da ragazzi, quando riprendevamo a giocare immediatamente senza dar troppa importanza al dolore.
La bella lezione di Bologna ci impone alcune riflessioni per il futuro immediato e conferma la forza dei nostri convincimenti.
Innanzitutto la scuola statale: è la scuola dell'inclusione e dell'accoglienza, della libertà di insegnamento e della pluralità, e tutti questi valori non sono negoziabili né disponibili nelle scuole di tendenza, ancorché regolamentate da apposite convenzioni. Le scuole di tendenza, che la Costituzione riconosce, sono altro e come tali devono essere «senza oneri per lo Stato».
Per questa ragione tutte le risorse devono essere disponibili per la scuola statale.
La bella lezione di Bologna riconferma il nostro obiettivo della generalizzazione della scuola dell'infanzia e lo riconferma sotto un duplice aspetto: il diritto dei bambini e delle bambine a frequentare una scuola laica e non confessionale o di tendenza; e l'obbligo costituzionale della Repubblica di istituire scuole di ogni ordine. Ricordiamo che tale obbligo costituzionale è espressamente previsto (art. 33) e non va confuso con l'obbligo scolastico (art. 34).
La bella lezione di Bologna conferma le crepe della nostra democrazia e i rischi dell'autoritarismo. La maggioranza del governo della città sembra non voler tener conto del risultato referendario, intenta come è a sminuirne il valore. In questo non è sola. I commenti di opinionisti e giornalisti si sono concentrati sulla bassa affluenza alle urne e attribuiscono l'astensione all'opzione B (quella che ha perso) o al disinteresse per il referendum stesso. Ignorano due dati essenziali: l'assenza di quorum è un elemento significativo del referendum consultivo o confermativo, come nel caso di quello di conferma o meno delle leggi costituzionali, che non consente logicamente di attribuire l'astensionismo ad una opzione o all'altra in assenza di argomenti indipendenti, tanto è vero che gli astensionisti possono aver disertato il voto proprio in ragione della sfiducia maturata nei confronti di un ceto politico incapace di ascolto e confronto. E questa ipotesi non deve essere del tutto peregrina, se guardiamo al dato generale dell'astensione anche solo nelle ultime due tornate elettorali del 2013. In secondo luogo scordano, quelli che hanno perso, di non aver invitato all'astensionismo, ma di votare l'opzione B che, appunto, ha ricevuto meno voti!
Noi chiediamo da tempo dati esatti sulle iscrizioni alle scuole paritarie, sul numero di bambini che restano in lista di attesa e su quanti sono costretti ad iscriversi alle scuole paritarie. Ma non riceviamo risposta, in Toscana e a Firenze.
Noi vorremmo sapere quante risorse sono dirottate alle scuole paritarie, ma è difficile rintracciare i mille rivoli del bilancio della Regione, delle Province e dei Comuni.
Noi vorremmo sapere se gli enti locali, la nostra Regione, i Comuni sono disponibili ad aprire dei tavoli di confronto con i cittadini e discutere. Qualche settimana fa abbiamo invece letto le dichiarazioni del nostro Presidente della Regione che dichiarava di voler aprire un tavolo di consultazione permanente con il FISM (Federazione Italiana Scuole Materne), mentre la reiterata richiesta di costituire una Consulta delle scuole, proposta dal nostro Tavolo, quale luogo di conoscenza e di confronto fra l'ente locale e la scuola, è stata rigettata.
Il referendum di Bologna può essere l'occasione di riaprire il confronto e inviteremo Comuni, Province e Regione a farlo, forti delle nostre ragioni, ragioni che spesso si scontrano con il muro della scarsezza di risorse. Ma forse qualche crepa in quel muro si intravede, se la Corte dei conti della Campania ha riconosciuto che talvolta si può sforare per far funzionare servizi indispensabili, come l'istruzione pubblica.



[1] Molti altri soggetti hanno aderito al Comitato promotore, tra cui: Agedo Bologna;Alleanza Lavoro Beni comuni Ambiente; Arcigay Il Cassero; ArciLesbica Bologna; Assemblea delle Scuole di Bologna e provincia; Associazione nazionale Per la Scuola della Repubblica; Bartleby; Centro Formazione e Ricerca Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana; Circolo de Il Manifesto di Bologna; Comitato Acqua Bene Comune; Comitato No People Mover; Coordinamento Nazionale per la scuola della Costituzione; Educatrici ed educatori contro i tagli; Famiglie Arcobaleno; GenerazioneTQ; Il Bolognino; Italia Dei Valori; Medicina Democratica; M.I.T. – Movimento Identità Transessuali; Movimento 5 Stelle; Noa – Cultura bene comune; Partito Comunista dei Lavoratori; Partito dei Comunisti Italiani; Partito della Rifondazione Comunista; Partito Socialista di Bologna; Radio Città Fujiko; Resistenze Internazionali – Giovani Contro il Capitalismo; Rete dei Comunisti Bologna; Rete delle Città Solidali; Rete Sviluppo e Solidarietà;  Sinistra Ecologia e Libertà; Una nuova primavera per la scuola pubblica; Vag61 Verdi, ecologisti e reti civiche; L’area programmatica congressuale “La CGIL che vogliamo” Bologna.